Stefano Schirò

stefanolisippo@live.it

Per una storia del brezi: la cintura tradizionale di Piana degli Albanesi negli scritti di Sidney J.A. Churchill

DOI: 10.7431/RIV10082014

“The peasant of Italy still retain much of their ancient jewels and their costumes; indeed they are about the only class of the people of Italy which still possesses something of its old splendor. This is to be attributed, no doubt, to the lesser intercourse which the peasants had with foreigners and with the world at large”1. Le parole del conoscitore d’arte Sidney John Alexander Churchill MVO risuonano come un’eco forte, volte a testimoniare la buona conservazione di antichi gioielli e costumi da parte dei “peasant of Italy”; ergo una sorta di apologia dei “paesani italiani” i quali tramandano ancora tali vetusti splendori. Lo studioso con icastica acutezza ne sottolinea anche il motivo precipuo, percependo tale “tradizione” incorrotta poiché indubbiamente (“no doubt”) sono stati scarsi i rapporti instaurati tra i “peasants” con gli “stranieri”. Su tale asserzione scaglierei però qualche lancia in sfavore, perché la ricchezza, per esempio, di molta arte orafa siciliana è da accreditare invece proprio al melting-pot che l’ha da sempre caratterizzata e che in un modo o nell’altro si ramificava -vuoi per influssi linguistici, vuoi per quelli più prettamente artistici- anche nelle periferie, ovvero nelle campagne dei cosiddetti “peasants”. Mi riferisco qui a qualche arabismo che ha in primis “intaccato” qualche variante del siciliano e poi si è progalata anche nella parlata di Piana degli Albanesi (una tra tutte “giulgiulan” -arabo- trapiantatosi così: “giuggiulena” -sicliano, slittando a Piana in “xhurxhullena”-arbëresh-, id est “il seme di sesamo”). Se si riflette ancora su quanto varia e vasta possa essere stata la “comunicazione iconografica” tra i gangli del potere (la proteiforme città di Palermo una volta araba, poi normanna, sveva, angioina, aragonese) e le zone di campagna, non si può far altro che stigmatizzare l’affermazione del Churchill, tentando in qualche modo di dimostrare che le “periferie” abitate appunto dai “peasants of Sicily” comunicavano con gli “stranieri”, infatti commissionavano opere ai valentissimi artisti di Palermo, centro di ampia e varia circolazione culturale. Il caso degli abitanti dell’allora Piana dei Greci calza a pennello per questa ardua dissertazione in quanto “foreigners” (stranieri) essi stessi in terra di Sicilia e fortemente legati a Monreale, quindi a Palermo per questioni religiose e artistiche. Essi hanno saputo preservare un sontuoso patrimonio di preziosi non perché isolati dal resto della Sicilia e oltre ma in quanto consci del loro forte valore identitario, rispettosi non solo della loro lingua -che continua ad essere parlata dopo cinquecentoventisei anni di emigrazione- ma anche di ogni singola espressione artistica (in particolare i “teatrali” costumi tradizionali2,“artigianato superiore, che impegna le attitudini creative specialmente delle donne”3, un vero e proprio trionfo di ricami in oro zecchino, di sete vermiglie, verdi, cerulee tanto ammirato dal raffinato ritrattista francese Gaston Vuillier4 nonchè i gioielli che li accompagnano, enfatizzandone la regalità). Del resto come ricorda Marina La Barbera “Partendo dagli studi e dalle intuizioni di de Saussure, Barthes arriva alla conclusione che il linguaggio, così come il vestito, è al contempo sistema e storia, atto individuale e istituzione collettiva, quindi è langueparole5. È d’uopo sottolineare le tangenze dei succitati costumi tradizionali e per cromia e per “pollockiani” ghirigori di racemi con certi splendidi paliotti d’altare siciliani ma soprattutto con le casule dei papades di Piana degli Albanesi. Una delle opere di oreficeria più particolare risulta essere il brezi,  una cintura (realizzata ad altissimo rilievo o a tutto tondo) formata da placche unite al  centro da una borchia cesellata a mano raffigurante soggetti di carattere religioso. Pitrè ribadisce che “…il cinto suol rappresentare, nel mezzo, ora la Vergine, ora S. Nicolò arcivescovo di Mira e patrono delle Colonie Albanesi, ora S. Giorgio, ora la Madonna dell’Odighitria, tutelari della Piana, ed ora altro patrono del costume italo-albanese”6; ma anche San Demetrio che insieme a San Giorgio e all’Odigitria costituiscono la triade dei patroni di Piana. Fondamentale l’etimologia della parola: brez significa infatti stirpe, progenie pertanto simbolo di maternità; chi lo indossa si auspica possa avere, per intercessione e/o protezione del Santo scelto, una cospicua prole7. In base al soggetto effigiato e alle percentuali in cui ricorre un santo rispetto ad un altro risulta facile, inoltre, ricostruire una breve cronistoria della devozione popolare. “Questi costumi sono di grande spesa, e non si fanno da chicchessia, né si rifanno facilmente; anzi l’uso comincia ad esserne limitato a sole poche persone, a certe feste ed alle nozze. Le famiglie che li hanno li guardano scrupolosamente”8 (Fig. 1). Le considerazioni del Pitrè9 che si possono estendere anche ai gioielli, sono in linea con il presente assunto, relativamente all’ultima parte riferita al modo in cui le famiglie che posseggono tali oggetti d’arte le “guardano”. Come? Non rinchiudendosi nelle loro torri d’avorio ma preservandole scrupolosamente.

Sul notevole valore economico di tali lavorazioni si sofferma anche Sidney Churchill: “The old costumes were expensive. In many districts, indeed in most parts of Italy, it was the custom to wear the marriage garments only on grand and important occasions, and to hand them down to the next generation”10. Naturalmente non tutto si è potuto conservare, le sfavorevoli congiunture economiche hanno fatto sì che si creassero agli inizi del Novecento dei particolari baratti tra quelli che Churchill etichetta come “traveller in cheap jewellery”, letteralmente “viaggiatori (in cerca) di gioielli a buon mercato” e la gente indigente e di paese che possedeva antichi pezzi di oreficeria: “There is also the “traveller” in cheap jewellery who is ready, when money is not immediately at hand, to accept old jewellery in exchange for his wares. Thus the melting-pot has destroyed much of the older and finer goldmiths’ work”11. La conclusione è amara poichè questo melting-pot che si è venuto a instaurare ha fatto sì che andassero distrutti molti lavori della più antica e fine oreficeria. Le considerazioni dello scrittore inglese nonché “Member of the Royal Victorian Order” risultano insostituibili perché quelle di un uomo di alta estrazione sociale, che si confronta con una “roba” che appartiene agli “ultimi”, a questi “Mastro don Gesualdo” che con cura difendono la loro essenza fisico (artistico)-identitaria. Si mostrano pertanto accattivanti le osservazioni del Churchill: “It may arouse surprise that peasants should possess such wealth, but i have seen these things in peasant houses. Until quite recent years the richer paesants in Sicily sought after ancient jewels and were ready to pay good prices for such as they could get. Silver girdles, of the kind worn by the women of the Piana dei Greci, could be got for about twenty pounds, whilst I have had to pay as much as forty for an exceptional specimen”12. Qui lo studioso, spogliatosi di ogni pregiudizio ammette che potrebbe sorprendere tanta ricchezza nei “peasants” ma lui stesso l’ha verificata, avendo visto questi oggetti nelle case contadine, da buon connoisseur; sottolinea inoltre che i “peasants” più ricchi fino a qualche anno addietro alla ricerca di tali antichi gioielli avrebbero pagato grandi somme onde ottenerli. Puntualizza l’attenzione sulle “silver girdles” ovvero le cinture in argento indossate dalle donne di Piana dei Greci, fornendo un dato fondamentale circa la stima di tali manufatti agli inizi del ‘900: si potrebbe acquistare un brezi con una ventina di pounds, mentre il Churchill ne ha dovuto spendere “addirittura quaranta” (“as much as forty”) per un eccezionale esemplare. Degne di nota le parole del baronetto William Agnew Paton13: “Intorno alla vita esse14 stringono un “brejo,” o cintura, con fibbie d’argento massiccio incise e dorate. A volte queste fibbie sono di grande valore, non solo a causa del peso del metallo usato per realizzarle, ma per il curioso e artistico lavoro a sbalzo, che rappresenta la Vergine o San Nicola (i santi patroni delle colonie albanesi), o San Giorgio, o la Madonna d’Odigitria, la protettrice del paese”15

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La cintura tra iconografia, antropologia, testi scritturali e letteratura latina

Prima di trattare del brezi della collezione Allotta di Piana degli Albanesi, si ritiene utile indagare certi aspetti relativi al significato delle cinture nell’antichità. Dal punto di vista iconografico innumerevoli sarebbero gli esempi di divinità, santi, angeli raffigurati con cinture impreziosite da gemme o interamente d’oro, si cita ad esempio: Europa nel “Ratto d’Europa” di Paolo Veronese (1578 circa, Venezia, Palazzo Ducale), Sant’Orsola nel “Martirio di Sant’Orsola” di Pietro Novelli (1644, Palermo, chiesa di Sant’Orsola), la figura della Gloria in “Le roi gouverne par lui-même” di Charles Le Brun (1661- galerie des Glaces, Château de Versailles).

Ivan Cavicchi dà una affascinante interpretazione della cintura, analizzando la storia di San Giorgio tramandata dalla celeberrima Legenda aurea; il santo cavaliere, dopo avere ferito il drago invita la fanciulla a gettare al collo del mostro la sua cintura, notando che: “la cintura appesa al collo del drago ha tutta l’aria di essere quella che i Romani chiamavano virginea vittae…la cintura ha un altro significato importante: il simbolo del cerchio, che veniva indossato, nell’Antichità, come una fascia, una corona, una cintura posta “intorno all’uomo”. Il cerchio stava a significare il ciclo completo della sorte e per questo la vittoria, la libertà, ma anche la vita e la morte. Metaforicamente, i cerchi sono fasce intorno agli uomini (non intorno a parti del corpo) che venivano poste sulla testa dei vincitori. Oggi, nel linguaggio sportivo si usa ancora dire “detenere una cintura”. Analoghi significati avevano le fasce matrimoniali. “Se ne può concludere”, scrive Onians (1998), che la cintura “rappresentava una condizione nuova, un nuovo fato ricevuto dall’uomo sotto forma di fascia”16.

“Nella storia di San Giorgio, la cintura esprime il senso profondo del legare. Per unire due persone, il sistema metaforico più pratico consiste nel legarli e lo strumento più semplice è una corda, una cintura o una viola mammola. Nel mondo mitico il legare aveva il significato di fissare”17. Nel rito greco-bizantino invece l’indissolubilità del vincolo matrimoniale viene esplicitata con la rottura del calice (ancora una volta il cerchio dell’imboccatura) dove entrambi gli sposi hanno sorbito il vino. Per ulteriori ragguagli antropologici si cita quanto scrive Mario Bacchiega il quale, esaminando la visione giovannea, nota che “..il figlio dell’uomo mostra sopra la lunga tunica una -cintura d’oro all’altezza del petto- (I,13)”18. La cintura circonda, racchiude uno spazio e lo protegge: “Così la cintura di Venere era ritenuta l’involucro che racchiudeva e difendeva tutta la bellezza della dea. Anche la Iside egiziana portava una cintura o fascia (“Libri dei morti”, 156) allo stesso modo della Immacolata di Lourdes. Omero ed Esiodo descrivono la cintura come un talismano divino che indica nella donna il luogo della sua potenza irresistibile…ancora nella Bibbia (Is., 76, 11) la cintura è il segno della stretta unione e della benedizione, ma anche della tenacia nella maledizione”19. La cintura può assumere anche la valenza di cingulo puritatis, San Basilio infatti ordinava ai monaci di dormire vestiti con le reni cinte da una cintura, per proteggere la loro castità20 . Se la cintura poi è d’oro (o d’argento come il nostro succitato brezi), questo sta ad indicare che ciò che viene difeso rappresenta qualcosa di luminoso. La medesima funzione protettiva è da addebitare al “collare d’oro da porsi al collo del defunto” (Libri dei morti egiziano 158), onde impedire la decomposizione, in tal modo il corpo era pronto per la resurrezione. Si può forse cogliere qualche somiglianza tra questa usanza e la scelta di seppellire alcune donne a Piana degli Albanesi agghindate con il costume tradizionale, in particolare con la xhëllona, gonna in seta con kurorët, fasce appunto d’oro o d’argento lavorate a fusello e forse anche con la cintura, magari con lo stesso significato di tutela fisico-spirituale. Degne di nota le parole dello pseudo Dionigi il quale redasse un trattato sugli angeli, affermando che le intelligenze celesti sono rivestite di una tunica e di una cintura, “le cinture significano la cura con la quale esse conservano la loro potenza; il potere che esse hanno di raccogliersi…di riempire armoniosamente in sé il cerchio indefettibile della propria identità (Pseudo Dionigi Areopagita, 240)”21 . Basti pensare per esempio all’”Angelo custode” di Pietro Novelli, il quale viene raffigurato proprio con una cinta adorna di perle e rubini (1640, Monreale, Museo Diocesano). Continua il Bacchiega evidenziando che l’arte cristiana si ispirò a questa idea significando nella cintura la spiritualità feconda ottenuta con la concentrazione mentale. Nell’isola di Bali nessuno poteva accedere al tempio dedicato ad una divinità materna, se prima non avesse cinto i fianchi con una cintura di stoffa gialla (oro)22 , con valore apotropaico. Ecco allora confermato il precedente assunto sul brezi come simbolo di fecondità-maternità o meglio come coadiuvante di esse23 . Viceversa, togliere ad uno la cintura vuol dire profanare i valori più significativi, cedere la cintura significa cedere le armi, darsi al nemico, assoggettarsi a valori non propri, allo stesso modo smantellare la cinta o “cintura” di una città è il segno della resa al nemico.

“Nel Medioevo…le vedove depositavano sulla tomba del marito la loro cintura quando intendevano rinunciare alla successione ereditaria”24. Presso i Romani e i Greci durante il rito del matrimonio lo sposo consegnava una cintura alla sposa, la quale cingendosi della stessa acquisiva la forza dell’uomo  e proteggeva se stessa da ogni infedeltà. La cintura simbolo quindi della resa e della donazione dell’uomo restava poeticamente appesa al letto matrimoniale25. Anche in India in alcuni rituali di iniziazione la cintura assume una funzione fortemente protettiva (Asvatayana Ghrysutra, 1, 19)26 .

Avendo ricordato la sfera della romanità, non ci si può esimere dal trattare alcuni versi dell’Aeneis virgiliana in cui svariati personaggi sono dotati di cinture con fibbie auree, trascurando questa volta il significato ad esse di volta in volta connesso dacché perlopiù identico a quelli antecedentemente citati (valore difensivo, apotropaico, propiziatorio) o comunque con l’accezione di ornamento muliebre tout court. La presente disamina inizia con il libro primo dell’Eneide: “… Pentesilea furiosa/ guidava le sue Amazzoni dagli scudi lunati:/ la vergine guerriera – una cintura d’oro/ sotto il seno scoperto – ardeva nella mischia/ ed osava combattere coi guerrieri più prodi”27. Estrapoliamo ora dal liber IV, la descrizione che Virgilio offre di Didone: “…è la sua chioma/ Con nastri d’oro in treccia al capo avvolta,/ Tutta di gemme come stelle aspersa:/ E d’oro son le fibbie, onde sospeso/ Le sta d’intorno de la gonna il lembo”28. Ritornando ancora una volta all’ambito prettamente guerresco giova citare un brano tratto dal libro V, quando Enea elargisce preziosi doni ai corridori “Teucri” e “de’ Sicoli”: “…d’un ‘Amazzone un turcasso/ Pien di tracie saette, un arco d’osso,/ Ed un bel cinto, a cui sono ambi appesi,/ Ch’han di gemme il fermaglio e d’or la fibbia”29. È possibile immaginare, giocando con la fantasia, questi eroi e queste celeberrime eroine agghindati con i gioielli che si possono osservare nelle collezioni tradizionali delle nonne di Piana degli Albanesi, in particolare brezet (le cinture).

Rara avis: il brezi della collezione Allotta di Piana degli Albanesi e le altre cinture citate da Sidney J.A. Churchill

Si prende ora in esame un solo esemplare di tali cinture ovvero quello che fa parte della collezione privata Allotta di Piana degli Albanesi, tuttora in ottime condizioni. Chi lo possiede lo conserva con orgoglio e lo sfoggia come “mirabile arredo” del costume tradizionale durante le sentitissime festività della Pasqua arbëreshe. Nel volume di Charles Holme intitolato “Peasant Art in Italy” (1913), oltre all’interessantissimo saggio del Churchill, vi è contenuto un cospicuo insieme di fotografie di gioielli dei “peasants” italiani, con una predilezione nella documentazione per quelli siciliani, specie quelli che completano proprio gli abiti delle donne di Piana degli Albanesi. Oltre alle più svariate tipologie di orecchini (ornati con perle di fiume (Figg. 2 e 3)30, rubini, smalti; tipologie perlopiù a navicella), pendenti (soprattutto croci con rubini o granati) sono state rintracciate anche le cinture di Piana dei Greci. In particolare nella didascalia delle figure 286 e 287 si legge (Fig. 7): “Silver girdle and clasp from Piano dei Greci, Sicily”, trattasi di una fibbia raffigurante San Giorgio, culminante con una corona sorretta da due angioletti e una cinta con placche a  snelle volute e racemi vagamente intrecciati ad una stilizzata coroncina, entrambi in argento e provenienti da Piana31.

Alle figure 288, 289 corrispondono (fig. 7): una cinta con placche con motivi floreali (specie di crisantemi) e una borchia con una Santa che detiene una corona di fiori (forse Santa Rosalia o la Madonna) attorniata da tre movimentatissimi puttini alati, di cui quello alla base stringe una cornucopia, antico simbolo di abbondanza e già attributo iconografico di Cerere, dea pagana a cui subentrò in Sicilia nella devozione popolare ad esempio ad Enna, centro dell’isola, la Madonna, di cui non a caso le rose sono peculiare attributo iconografico32. Gli altri due stanno scambiandosi invece con gesto vivace un mazzo di fiorellini, un festone finemente cesellato incorona la fibbia. Queste due opere vengono indicate come proprietà del senatore Chiaramonte Bordonaro. La figura 290 (Fig. 8) presenta una fascia ombelicale con perline in oro e corallo, alle due estremità una lavorazione in argento sbalzato e cesellato con foglie di cardo e altri motivi cari alla cultura rococò siciliana, e con al centro un apotropaico campanellino, che viene indicato come ornamento utilizzato durante la celebrazione dei battesimi a Piana dei Greci33. Notevole la cintura della figura 291 (fig. 8) con placche con decorazioni floreali e al centro di ognuna piccoli e delicatissimi volti d’angelo, la fibbia (292, fig. 8) reca invece San Nicola (?).  Direttamente dalla proprietà del Senatore Andrea Guerneri proviene un originalissimo brezi (Palermo 1703) con borchia centrale conchiliforme raffigurante un baldanzoso San Michele Arcangelo che brandice energicamente la spada, nella parte inferiore risulta impreziosito dalla cesellatura di un’aquila con le ali rivolte all’insù, la sezione sommitale è riempita da una corona sorretta dai due usuali angeli. Sontuosa la cinta composta da sette placche con scene della passione di Cristo (293 e 294, fig. 6). I punti 295 e 296 (Fig. 6) presentano una cintura con lamine con sole raggiato centrale e una margheritina per ogni angolo del quadrato, la fibbia contiene una nicchia entro la quale si nota San Giuseppe e il Bambino, culmina con una corona (datati 1680). Quest’ultima cintura è accostabile con quella della figura 300 con placche con il sole illirico (fig. 4), che compare anche nella relativa borchia centrale, questa volta effigiante San Giorgio che uccide il drago, designato come “The property of Mrs. Euphrosyne Whitaker”, Palermo 1710. Un padre della chiesa greca figura invece nella figura 299 (fibbia in argento dorato, fig. 4)34. Al punto 298 (fig. 4) si trova invece una borchia con l’Immacolata con le mani incrociate sul petto.

Fondamentale risulta la figura che lo scrittore Churchill numera con 297 (Fig. 4) ovvero una “silver-gilt girdle-clasp” (fibbia di cintura in argento dorato) senza specificarne né la data né l’ubicazione dell’epoca; si è a conoscenza però dall’attuale proprietaria che la provenienza è palermitana. Si tratta proprio della borchia, che si è potuta rintracciare nella collezione Allotta di Piana degli Albanesi (Fig. 5). Il Churchill non accompagna tale fibbia con la relativa cinta, pertanto si fornisce una fotografia e una dettagliata descrizione pure di quest’ultima. Il brezi non possiede più l’originale doratura, ma versa comunque in buone condizioni. Il manufatto per iconografia si rivela come un unicum dell’arte orafa di questo particolarissimo settore35  . La borchia reca nella parte alta una corona, da essa pende un teatralissimo tendaggio, appena scoperto e sorretto da due angeli paffuti lavorati a tutto tondo con postura a torciglione e coperti in parte da un mantello che conferisce ulteriore dinamicità alle figurette; essi sembrano quasi invitare lo spettatore a partecipare alla scena di martirio che si inserisce perfettamente entro le tematiche controriformate poichè tali raffigurazioni dovrebbero rinvigorire la fede del credente.

Émile Mâle ritiene che il culto dei santi riveli: “… il bisogno di appoggio, di guarigione, di salvezza nell’ignoranza profonda di ogni cosa; esso è singolarmente toccante. Nelle ore difficili della vita, tra le inquietudini dello spirito o nella tristezza dell’anima, il nome di un santo soccorritore si presentava sempre nella memoria del cristiano”36. È davvero uno scenario in cui sembra di potere entrare, il paragone più immediato è quello con la Madonna Sistina di Raffaello (1513-1514, Gemäldegalerie di Dresda)37. Il baldacchino, trattato in parte a bassorilievo, in parte ad altorilievo, viene reso con maestria e impreziosito da cesellature con varie tipologie di fiori e delicati ramoscelli. Il bordo consiste in una fascia decorativa fortemente stilizzata in cui si alternano un tondino e un semplice motivo “chiastico”, ad esso si collega una frangia fittamente cesellata così come il cordame che sorregge il drappo intero. La parte basamentale è caratterizzata da un essenziale intreccio di foglie di cardo, simbolo cristologico. Sono però due i personaggi (resi a tutto tondo) che disponendosi entro il teatrino vivacemente realizzato captano maggiormente la nostra attenzione: una santa martire con entrambe le mani legate dietro la schiena su una piccola colonna alla sua destra che viene colta in un atteggiamento a metà strada tra l’estasi e il dolore, con occhi socchiusi, labbra serrate, naso prominente, capelli lunghi raccolti e mossi, con una tagliente aureola raggiata che le incornicia il cranio, inarcato per il tormento, con una volumetrica resa del collo allungato. Puntuale il modo in cui vengono confezionate le vesti, quasi principesche, una sorta di corpetto ante litteram impreziosito da una infiorettatura e una gonna che è tutto un golfo di pieghe. L’aguzzino, come pure l’afflitta fanciulla, si mostra a piedi scalzi, ma anche il suo petto è per metà scoperto, indossa inoltre un gonnellone a pieghe e un paio di calzoni al ginocchio, e viene colto nell’atto di colpire con una lancia la santa in questione all’altezza della coscia sinistra. Il suo aspetto torvo, indiavolato traduce nitidamente l’idea del malfattore, analogo infatti a certi ceffi dei misteri di Trapani. Appena sotto la lancia si notano tre marchi. Passando ad analizzare invece la cinta (Figg. 9a e b), si ritiene che si possa trattare di quella che accompagnava ab antiquo la borchia in quanto reca i medesimi marchi. Le placche sono di due tipi e si alternano: la prima è un simpatico cestino contenente tre fiori, riempito inoltre con molto fogliame, entro un rombo a sua volta attorniato da motivi arabescati, la seconda è un insieme di motivi fitomorfi che circondano una ellisse entro la quale si sviluppa un fiore con stelo terminante con volute contrapposte.

I marchi del brezi Allotta

Tentando di interpretare i marchi in questione (Fig. 10) si ricorda che “Il Regio decreto del 14 aprile 1826 stabiliva che negli oggetti d’oro e d’argento dovevano esserci tre bolli: quello del fabbricante, del saggiatore e di garanzia, quest’ultimo costituito dalla testa di Cerere seguita da un numero”38. Il manufatto in esame reca proprio tre marchi. “Il bollo del fabbricante riportato in una laminetta di rame, consisteva nelle iniziali dell’artefice seguite, qualora l’avesse ritenuto opportuno, da un segno distintivo. L’orafo doveva essersi già munito della patente relativa alla sua attività rilasciata dalla Direzione Generale dei Rami e diritti Diversi…”39 . Il brezi reca la sigla “OMR” che si può interpretare  come “Onofrio Mercurio”, “Onofrio Mercurio, e Zumica” oppure “Orazio Mercurio”. Questi nomi è possibile ricavarli dall’elenco dei primi orafi e argentieri di Palermo che a seguito della già citata legge del 1826 richiesero la patente. Da qui si può ipotizzare che la cintura analizzata risulta posteriore all’aprile del 1826.

“Il bollo del saggiatore che può indicare dei termini di datazione per le opere eseguite tra il 1826 e il 1872 era quello di un funzionario dell’autorità regia, nominato dal Regio Maestro di Zecca o Amministratore delle Officine di Garanzia, che avrebbe scelto un distintivo a suo piacimento. Per Palermo fu nominato l’orafo Salvatore la Villa dal 1826 al 3 Agosto 1837. L’emblema da lui scelto consisteva in una colonna con una corona sopra sino al 1834 e in un’anatra dal 1834 al 3 Agosto 1837”40. Il brezi sembra recare l’emblema della colonna con corona, pertanto se ne deduce che esso venne realizzato entro il 1834. Esaminando adesso il bollo di garanzia o dello stato che “consisteva in una testa di Cerere con i numeri dall’1 al 6 per l’oro e dal 7 al 10 per l’argento, indicante i millesimi”41, nel caso in questione  si rileva la testa di Cerere accompagnata dal numero 8 ovvero “di millesimi 833 1/3, o sia di once 10”42. “La Testa di  Cerere restò in vigore sino al 2 Maggio 1872 quando Vittorio Emanuele II con R.D. dispose che la fabbricazione e il commercio degli oggetti d’oro e d’argento era libero e si dovesse soltanto marchiare facoltativamente l’argento con il bollo 950, 900, 800, e la testa dell’Italia turrita… questa legge rimase in vigore sino al 1934”43.

Il brezi, pertanto, dovette essere realizzato presumibilmente dall’argentiere Onofrio o forse Orazio Mercurio nell’arco di tempo che va dal 14 aprile del 1826 al 1834.

Ardua risulta l’identificazione della Santa dalla singolare iconografia poiché sono molte le martiri rintracciabili in tele, sculture e affreschi raffigurate legate a una colonna, pronte  per essere torturate nei modi più disparati e sempre indefesse nella loro inossidabile fede. Si ricordano ad esempio: santa Apollonia, patrona dei dentisti, che viene presentata appoggiata ad un fusto di colonna, alla quale vengono cavati i denti (vedi per esempio “Martirio di Santa Apollonia” di Guido Reni, XVII secolo, collezione privata, Venezia), nella medesima posizione si trova sant’Agata fustigata e sottoposta al violento taglio delle mammelle, mediante delle tenaglie (“Martirio di Sant’Agata” di Sebastiano del Piombo, 1520, Firenze, Palazzo Pitti ma anche l’affresco del Parmigianino, secolo XVI, Parma, S. Giovanni Evangelista); anche santa Lucia risulta legata nel  “Martirio di Santa Lucia” di Francesco Gramignani Arezzi (1773, Melilli -SR-) così come santa Martina. Giova citare anche sant’Orsola, la quale essendosi negata al tiranno Attila, venne da lui trafitta con una freccia (“Martirio di sant’Orsola del Caravaggio, 1610, Galleria di palazzo Zevallos a Napoli e la tela omonima di Pietro Novelli, 1644, chiesa di sant’Orsola, Palermo). A questo punto il giudizio iconografico diventa un oroscopo. Le eroine cristiane che però si avvicinano maggiormente all’iconografia di cui si tenta di offrire un’interpretazione sono: santa Bibiana, che venne legata ad una colonna e flagellata senza pietà con le «piombate», ovvero con fasci di verghe e pallini di piombo44, e santa Cristina di Bolsena45. Si propende maggiormente per le sante venerate nella provincia di Palermo (l’argentiere del brezi in questione è infatti palermitano) e in particolare per l’ultima passata in rassegna. “Cristina, fanciulla di nobile famiglia…era bellissima e molti la desideravano per moglie”46, le sue origini nobili collimano infatti con le vesti eleganti della santa della nostra fibbia. Numerose le torture a cui è stata sottoposta: le venne legata una macina al collo e venne lanciata in mare, ma gli angeli la sollevarono nelle loro braccia e Cristo stesso discese fino a lei battezzandola; fu gettata in una fornace accesa e rimase per cinque giorni in compagnia degli angeli; le scagliarono addosso due aspidi, due vipere e due colubri ma ne uscì indenne; le amputarono inoltre le mammelle, ma ne sgorgò candido latte invece di sangue, le venne addirittura tagliata la lingua, morì però trafitta con due frecce nel cuore e una nel fianco47. Questo stando a quanto tramanda Jacopo da Varagine (1228-1298), naturalmente bisogna anche considerare le versioni precedenti come la Passione del V secolo, contenuta in un papiro proveniente da Oxirhynchos (Egitto) e gli scritti degli autori del cristianesimo medioevale come: Beda il Venerabile (VII secolo), Aldhelmo di Malmesbury (+709), Adone di Vienne (+875), Rabano Mauro, Giuseppe l’Innografo (IX secolo), Alfano di Salerno (XI secolo)48 e così via. Artista che segue questa tradizione della Santa colpita da frecce e annodata ad una colonna (come la martire della borchia) è ad esempio Jacopo Palma il Giovane (“Il martirio di santa Cristina”, secolo XVII), rendendola quasi come il corrispettivo al femminile del notissimo San Sebastiano. Interessante citare anche la parte finale di una Passio della Santa di Bolsena dove si legge: “I giudici tornarono  a infierire su di lei condannandola a terrificanti quanto inefficaci torture fino a quando non fu uccisa con due colpi di lancia”49. Il dettaglio del supplizio inferto tramite un colpo di lancia combacia con quello della scultura in argento, per quanto riguarda l’elemento colonna non si può poi tacere la notissima iconografia del “Cristo alla colonna” (uno tra tutti  quello di Antonello da Messina, 1475-1479, Louvre). Ad avvalorare tale supposizione, ovvero che la Santa effigiata nel brezi della collezione Allotta sia molto probabilmente Cristina, è il fatto che la devozione nei suoi confronti era ed è tuttora molto radicata a Palermo; basti pensare che le prime patrone della città furono: Agata, Ninfa, Cristina, Oliva50 e che Cristina in particolare figura come patrona di un paese vicinissimo a Piana degli Albanesi dal nome appunto Santa Cristina Gela. Le si addicono, comunque, i versi di Mario Rapisardi (Ode, per il 5 febbraio 1859, su Sant’Agata): “Non valser spine e triboli,/ non valsero catene;/ né il minacciar d’un Preside/ a trarla dal suo Bene,/ a cui dall’età eterna/ fu sacro il vergin fior”.

Se si volesse raffrontare la borchia centrale del brezi con altri manufatti artistici, senza varcare però il confine delle arti applicate, significativo appare il confronto con le paci sacre conservate al museo diocesano di Monreale o quelle del tesoro della Cattedrale di Palermo51 che sembrano ricollegabili per forme e tipo di lavorazione alle fibbie in esame. Non a caso negli scritti di Emma Perodi, giornalista toscana che scelse Palermo come sua patria ideale nonché collaboratrice de “La Rivista della Moda” e autrice di molti testi per bambini, si legge: “descrive il costume di gran festa delle donne di Piana dei Greci cosparso di fiocchi, di frange, di ricami d’oro e d’argento, “adorno di una cintura d’argento e oro con una borchia sul davanti alta un palmo che pare una pace sacra, come se ne conservano nei tesori delle cattedrali… Pendenti, spille, collane d’oro completano questo ricchissimo vestiario che somiglia a quelli di certe Madonne”52, effettivamente la penisola iberica annovera molte statue di Madonne con fogge simili a quelle qui evidenziate. Le figurette centrali potrebbero essere accostate, tra gli innumerevoli esempi, a quelle di molti capezzali specie con l’Immacolata o ai personaggi che popolano qualche arca reliquaria, o le mazze, i paliotti e i medaglioni d’argento, nonché ai puntali di stendardi di varie confraternite53. Il parallelismo si può anche estendere a certi tronetti in argento o in oro siciliani o alla cimasa di certe cartagloria sempre in argento54, contraddistinti da identico gusto decorativo, in un gioco di motivi arzigogolati che cela il noumeno, luci e ombre di racemi che si rincorrono in intrecci inestricabili, quasi a fungere da misteriosa quanto inspiegabile cartina geografica che indica la rotta verso l’inintelligibile,  in volute che fungono quasi da trampolino di lancio per gustosi putti imbolsiti che altrimenti non intraprenderebbero mai la via per ricongiungersi all’Eterno.

Tornando, infine, al corollario del tema svolto: esiste un ponte tra la cultura “contadina” (“peasant”) e quella “straniera” (palermitana, intesa qui come una mescidanza di culture) e non invece incomunicabilità, enclave, faglia; la linfa che la alimenta è eterogenea così come eterogeneo è il linguaggio.

Il brezi, non funge, dunque, soltanto da ornamento muliebre o da sublime accessorio dell’arte orafa siciliana, ma racchiude in sé tutta una serie di valenze in primis religiose, protettive, apotropaiche, custodendo esso tutto il potere di una commovente seppur muta preghiera a Dio o di un’ode alla ninfa Egeria.

  1. Sidney J.A. Churchill, Peasant Jewellery in C. Holme, Peasant Art in Italy, The Studio LTD, London Paris New York 1913, p. 33. []
  2. È utile ricordare che Antonino Salinas espose i costumi tipici di Piana dei Greci al Museo Nazionale di Palermo, merito che gli viene riconosciuto da Sidney J.A. Churchill: “…Professor A. Salinas has already exhibited, at the National Museum in Palermo, the costumes of the natives of the Piano dei Greci and the interior of a peasant’s room” (Introductory note , in Peasant Art …, 1913, p. 6) []
  3. A. Buttitta, ad vocem Costume, tradizione popolare, in Enciclopedia Universale dell’Arte, Novara 1981, col. 43. []
  4. Sono stati molti gli artisti che attratti da questi costumi tradizionali hanno tratto ispirazione per le loro creazioni: Jean-Pierre-Louis-Laurent Houël, il napoletano Saverio della Gatta con i suoi non proprio filologici acquerelli, Ettore De Maria Bergler con la sua austera “Donna di Sicilia in costume di Piana degli Albanesi” del 1933 nella GAM di Palermo, Nicolò Giannone ne “Il senato palermitano esce dalla cattedrale” (1894 circa, depositi della GAM di Palermo). Come non citare pure Franco Zeffirelli che nel suo film “Cavalleria Rusticana” (1982), rende le sue donne ancora più superbe vestendole con abiti che si rifanno liberamente a quelli di cui stiamo discutendo. []
  5. M. La Barbera, I costumi e i gioielli di Piana degli Albanesi in OADI, Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia (www.unipa.it/oadi/). []
  6. G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. I, Palermo 1889, p. 429-430. []
  7. “Il dono del brezi da parte del fidanzato alla futura sposa – che lo indosserà per la prima volta durante la cerimonia di nozze – conclude la teoria degli xénia nuziali e, oltre che propiziare fecondità, allude alle corone che ai due verranno poste e scambiate sul capo durante il rito religioso, detto, appunto, dell’incoronazione” in Z.G. Chiaramonte, Il “Cintiglio” delle albanesi di Sicilia, in «Il Pitrè». Quaderni del Museo Etnografico Siciliano, n. I, Gen-Apr 2000, p. 16. []
  8. G. Pitrè, Costumi, in Catalogo illustrato della Mostra Etnografica Siciliana per l’Esposizione Nazionale di Palermo, con disegni di Aleardo Terzi, Palermo 1892, in La Esposizione Nazionale 1891-1892, con testi di U. Di Cristina e B. Li Vigni, Palermo 1988, p. 199. []
  9. Catalogo illustrato della Mostra Etnografica Siciliana, ordinato da G. Pitrè, Palermo 1892, rist. Palermo 1968 con intrd. di A. Uccello. []
  10. Cfr. Holme, Peasant Art in Italy, 1913, p. 33. []
  11. Ibidem []
  12. Ibidem []
  13. Era un politico inglese nonché mercante d’arte (20 Ottobre 1825-31 Ottobre 1910); Thomas Agnew & Sons, la sua attività artistica londinese di Mayfair fiorì come una delle più importanti concessionarie d’arte a Londra dal 1860 fino alla sua chiusura nel mese di aprile 2013, ancora con la famiglia Agnew coinvolta, e ancora conosciuta come “Galleria di Agnew”, o più informalmente “Agnew’s” (Wikipedia ad vocem) []
  14. Le donne di Piana degli Albanesi. []
  15. “Around their waists they clasp a “brejo,” or belt, with massive silver buckles engraved and gilt. Sometimes these buckles are of great value, not only on account of the weight of metal used in making them, but because of the curious and artistic repoussé work, representing the Virgin or San Nicolo (the patron saints of the Albanian colonies), or St. George, or La Madonna d’Odigitria, the protectress of the town” (in William Agnew Paton, Pictoresque Sicily, New York e Londra 1898, p. 139). Si ringrazia per questa preziosa segnalazione Giuseppina Demetra Schirò. []
  16. I. Cavicchi, La bocca e l’utero. Antropologia degli intermondi, edizioni Dedalo, Bari 2010, p. 279. []
  17. Ibidem. []
  18. M. Bacchiega, I mostri dell’Apocalisse, Roma 1982, p. 133. []
  19. M. Bacchiega, I mostri…, 1982, p. 134. []
  20. Ibidem. []
  21. M. Bacchiega, I mostri…, 1982, pp. 134-135. []
  22. Ibidem. []
  23. 23 L’etimologia della parola “incinta” ci porta al latino medievale incincta che, a sua volta, deve considerarsi un rifacimento paretimologico del latino classico incien-entis «gravida», sul modello del participio passato di incingĕre «recingere»; tale accostamento è motivato da Isidoro di Siviglia, nelle Etimologie, attribuendo al prefisso in- un valore negativo (incincta equivarrebbe quindi a non cincta) e alludendo così al fatto che le donne gravide non fossero use portare cintura («incincta, id est sine cinctu; quia praecingi fortiter uterus non permittit») in Enciclopedia Treccani, vocabolario on line ad vocem. []
  24. Ibidem. []
  25. Cfr. Bacchiega, I mostri…1982, p. 136. []
  26. Ibidem. []
  27. Eneide I, vv. 570-574, traduzione di Cesare Vivaldi. []
  28. Traduzione di Annibal Caro, Eneide, Venezia 1796, p. 160. La sua veste è “d’arabo lavoro riccamente fregiata”, ho sempre immaginato la regina Didone, leggendo questi squisiti versi, agghindata esattamente come le raggianti donne con gli abiti di festa di Piana degli Albanesi. []
  29. Traduzione di Annibal Caro, Eneide, Vol. I, Milano 1827, p. 172. []
  30. In particolare gli orecchini della fig. 2 (numero 245) sono molto simili a quelli che sfoggia con una certa affettazione intellettualistica Teresa Gargotta Salinas in un ritratto realizzato da Michele Panebianco del 1851, conservato al Museo Archeologico Salinas di Palermo (Fig. 3). []
  31. Cfr. anche l’interessantissima cintura con San Giorgio rintracciata a Marsala da M. C. Di Natale, scheda II, 122 in Ori e argenti di Sicilia dal Quattrocento al Settecento, catalogo della Mostra a cura di M.C. Di Natale, Milano 1989, pp. 267-269.; cfr. pure M. La Barbera, Il costume e i gioielli di Piana degli Albanesi, in Tracce d’Oriente. La tradizione liturgica greco-albanese e quella latina in Sicilia, -a cura di M.C. Di Natale- Palermo 2007, pp. 111-131. []
  32. M. C. Di Natale, I monili della Madonna della Visitazione di Enna, nota introduttiva di T. Pugliatti, con un contributo di S. Barraja, Appendice documentaria di R. Lombardo e O. Trovato, Enna 1996, passim. []
  33. Cfr. saggio di M.C. Di Natale in L’arte del corallo in Sicilia, Palermo 1986, p. 371. Si aggiunga: “Comune appare in Sicilia la lavorazione di queste fasce spesso destinate ad ornare statue del Bambino Gesù così come è documentato dalla scultura della chiesa di S. Giuseppe di Palermo, dove il Santo tiene per mano il divino Fanciullo, protetto da una cintura in oro e corallo, che gli cinge i fianchi; il loro uso viene anche attestato da antiche stampe popolari siciliane dell’Ottocento” (M.V. Mancino, scheda IV.20 in Museo d’Arte Sacra BasilicaSantaMariaAssunta a cura di M. Vitella, Trapani 2011, p. 156). []
  34. Tali fibbie risultano accostabili -per le loro forme architettoniche con nicchia- agli altari barocchi della chiesa dell’Odigitria di Piana degli Albanesi progettata dal Novelli. []
  35. Singolare anche il cinturone in argento (16×40 cm) con la Trinità conservato nel collegio di Piana degli Albanesi, catalogato dalla Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Palermo il 20 dicembre del 1976; Antonio Cuccia, compilatore della scheda in questione, scrive: “lavoro a getto: nella zona centrale rilievo con la s.s. Trinità, nelle due fasce laterali, sempre a rilievo, fitti motivi a girali”; siglato “SR” ed etichettato inoltre come “Oreficeria palermitana della fine del XVIII secolo. Il cinturone che viene applicato alla statua della Madonna, fa parte del corredo tipico del costume di Piana degli Albanesi. La raffigurazione della Trinità segue il modulo iconografico della pittura palermitana del ‘700”. []
  36. E. Male, L’art religieux du XIII siécle en France, tomo II, Colin, Parigi 1958, p. 246. []
  37. Relativamente all’espediente iconografico degli angeli che sorreggono il tendaggio si addizionino anche opere come: la Madonna del Parto di Piero della Francesca (1450-55, Museo della Madonna del Parto, Monterchi), la Madonna in trono tra i Santi Giuseppe, Bernardino, Giovanni Battista e Antonio Abate di Lorenzo Lotto (1521, Bergamo, San Bernardino), la Carità di Sant’Antonio di Lorenzo Lotto (1542, Venezia, Santi Giovanni e Paolo), Il concerto di Gerrit Van Hontorst al Louvre. []
  38. S. Barraja, I marchi degli argentieri e orafi di Palermo dal XVII secolo ad oggi, saggio introduttivo di M.C. Di Natale, Milano 1996. []
  39. Ibidem. []
  40. Ibidem. []
  41. Ibidem. []
  42. Ibidem. []
  43. Ibidem. []
  44. Spirò quattro giorni dopo, secondo la tradizione, a quindici anni (la statua marmorea del Bernini del 1626, chiesa di S. Bibiana, Roma, enfatizza proprio la presenza della colonna). []
  45. O di Tiro (in Fenicia) secondo il Martirologio Geronimiano e le redazioni greche della passio, cfr. A. Amore, ad vocem Bibliotheca Sanctorum, vol. IV, Roma 1995, p. 330. []
  46. Legenda Aurea, Jacopo da Varagine. []
  47. https://it.wikipedia.org/wiki/Cristina_di_Bolsena. []
  48. Ibidem. []
  49. Per l’agiografia completa cfr. A. Amore, ad vocem Bibliotheca Sanctorum, vol. IV, Roma 1995, pp. 330-338. []
  50. P.F. Palazzotto, Sante e patrone: iconografia delle Sante Agata, Cristina, Ninfa e Oliva nelle chiese di Palermo dal XII al XX secolo, Palermo 2005. []
  51. Cfr. M.C. Di Natale, Ori e argenti nel tesoro della Cattedrale di Palermo, in M. C. Di Natale, M. Vitella, Il Tesoro della Cattedrale di Palermo, Palermo 2010, passim. []
  52. Cit. in P. Manzo, Storia e folklore nell’opera museografica di Giuseppe Pitrè, Napoli 1999. []
  53. Cfr. Le confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo. Storia e Arte, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Palermo 1993, passim. []
  54. Mi viene in mente una cartagloria di autore ignoto, datata 1693 conservata al Museo Regionale di Messina (cfr. Orafi e argentieri al Monte di pietà: artefici e botteghe messinesi del sec. XVII, Messina, Monte di pietà, 18 giugno-18 luglio 1988, pp. 234-235). []