Magda Maria Ziino

acquario83@iol.it

Le argenterie sacre della cattedrale di San Bartolomeo a Lipari

DOI: 10.7431/RIV10052014

Il patrimonio artistico delle isole Eolie è stato oggetto nel corso degli anni Novanta di una campagna d’indagine da parte della Soprintendenza ai BB. CC. e AA. di Messina, poi edita nell’Atlante dei beni1. L’opera ebbe il merito di catalogare, per la prima volta e in forma sintetica, le opere più disparate conservate nei luoghi d’interesse dell’arcipelago, lasciando a studiosi e specialisti il successivo compito di approfondire più analiticamente i diversi settori artistici2. Con il presente contributo3si intende dunque raccogliere quel testimone e posare uno sguardo più profondo sulle argenterie oggi come allora conservate nella cattedrale di San Bartolomeo a Lipari, offrendo informazioni sinora inedite sulla loro esecuzione e, quando possibile, sulla committenza cui la loro produzione è stata strettamente connessa.

Il tesoro di San Bartolomeo è attualmente conservato nella chiesa Madre di Lipari e in santuari limitrofi. La divisione di questo prezioso patrimonio, che raccoglie opere caratterizzate da funzione liturgica4provenienti dalle diverse chiese dell’isola, è imposta da esigenze pratiche inerenti il culto, dettate anche dal calendario liturgico, e dall’assenza di un Museo Diocesano che possa garantire la fruizione delle suppellettili ad un vasto pubblico.

Come già osservava il Di Marzo, la preziosità della materia è sempre stata causa di irreparabili perdite del patrimonio storico-artistico nel tempo5. La suppellettile d’argento pervenuta è di fatto successiva al 1544, quando a causa dell’invasione del pirata tunisino Kaireddin detto il Barbarossa andò perduto il tesoro preesistente6. Il presente studio, oltre a fornire informazioni relative alla datazione e l’analisi dei punzoni apposti sugli argenti del tesoro della Cattedrale, ha consentito di ascriverne la produzione a maestranze isolane (Palermo, Messina, Catania) e meridionali7.

A partire dal 1459, Il marchio della città di Palermo era composto da un triplice punzone: il primo presentava il simbolo della città, l’aquila accompagnata dalla sigla R.V.P. (Regia Urbs Panormi); il secondo era il punzone alfanumerico costituito dalle iniziali del console della maestranza degli argentieri e dall’anno di carica; il terzo riportava le iniziali dell’argentiere autore dell’opera. A volte quest’ultimo utilizzava dei simboli distintivi, come un puntino o un giglio, per mantenere una sigla autografa e originale. Il marchio indicante il consolato palermitano fu contraddistinto sino al 1715 dall’aquila rappresentata “a volo basso”, mentre in seguito e sino al 1825 la postura del volatile mutò nella forma cosiddetta a “a volo alto”8(Figg. 12).

Il punzone in uso nella città di Messina9 era caratterizzato dalla croce entro scudo sormontato da corona, con ai lati le lettere M e S, stanti per l’indicazione latina Messanensis Senatus10. Dal 1693 alla prima metà del XVIII secolo, il marchio territoriale veniva collocato tra le iniziali del console, distinto dalla lettera C, e la data per esteso. Quando lo spazio lo consentiva, le sigle dell’argentiere venivano apposte sotto lo scudo cruciato. Nella seconda metà del XVIII secolo, le iniziali del console precedono le ultime due cifre del millennio11.

Il consolato degli argentieri e orafi di Catania seguiva convenzioni analoghe a quello palermitano. La bulla di garanzia, con piccole varianti tra XV e XIX secolo, consta dello stemma di Catania, avente l’elefante sormontato dalla lettera A (iniziale di sant’Agata), oppure con l’abbreviazione di Catania (CAT), o ancora con la sigla C.T.R. (Catania Tutrix Regum). Accanto allo stemma, è possibile trovare la data di esecuzione dell’opera, per intero o con le sole ultime due cifre (specie negli ultimi decenni del XVIII secolo), le sigle iniziali del console e quelle dell’argentiere12.

Il tesoro della Cattedrale comprende anche argenterie di fattura ottocentesca eseguite da argentieri attivi nel Regno di Napoli. A partire dal 1823, con decreto di Ferdinando I, le autorità del governo borbonico introdussero un sistema di punzonatura rimasto in vigore fino al 1872 e costituito dal profilo rivolto verso destra di Partenope e dal numero arabo indicante il titolo dell’argento13. In un momento successivo alla sua introduzione, il punzone appena descritto si arricchì della presenza della lettera N, che significa “nostrale”, e su cui poteva inoltre trovarsi un emblema distintivo del saggiatore. Dal 1825 al 1832, ad esempio, a Napoli fu in vigore il punzone del saggiatore Paolo De Blasio, riscontrabile proprio sulle opere liparesi14 (Fig. 3). Fa parte del capitolo della Cattedrale di Lipari anche un calice caratterizzato da diverso bollo napoletano, composto da croce greca, lettera N e numero 8, usato per le sole suppellettili sacre negli anni compresi tra il 1839 e il 187215 (Fig. 4). La disposizione di Ferdinando I del 1823 fu estesa alle città “al di là del faro” soltanto nel 1826, con D.R. del 14 aprile. Da quel momento furono abolite le maestranze operanti nelle diverse città isolane e si adottò un unico bollo di garanzia valido per tutta la Sicilia, il profilo di Cerere rivolto a sinistra e accompagnato, analogamente a quanto accadeva nella punzonatura vigente nel regno di Napoli, dai numeri arabi destinati a distinguere i diversi titoli per l’oro e l’argento16.

Nonostante la presenza delle sigle punzonate sulle suppellettili, non sempre è stato possibile associarle al nome dell’artefice, specialmente per i secoli più lontani. Tuttavia in non pochi casi è stato possibile ascrivere le suppellettili liparote al catalogo di artisti la cui attività è stata ampiamente ricostruita e dei quali sono noti percorso artistico, luoghi e tempi di produzione17. È il caso ad esempio dell’argentiere messinese Diego Rizzo, documentato dal 1618 al 1669, autore di un calice, con decorazioni incise su fondo passato e bulino (Fig. 5)18.

Altri argentieri messinesi sono Francesco Bruno, attivo dal 1652 al 1684 e autore per la Cattedrale di San Bartolomeo di un calice (Fig. 6), decorato con volute contrapposte raccordate a testine di cherubino a rilievo19, e Antonio o Antonino Dominici, documentato dal 1665 al 169920. Il punzone relativo a quest’ultimo, ANTO DOMI, è stato rinvenuto su un pregevole servizio d’altare composto da una coppia di candelieri e da una croce (Fig. 7), messo a corredo della cappella del SS.mo Sacramento. I due candelieri presentano ciascuno una base tripartita con volute angolari su piedi leonini, ornata da grosse foglie d’acanto e scudi con iscrizioni che potrebbero riferirsi ad un intervento di restauro effettuato nel 1746, al tempo del vescovato di Mons. Francesco M. Miceli21. Dalla base si sviluppa un fusto a balaustro con grosso nodo a vaso, decorato con motivi fitomorfici e terminante in un piattello semisferico ornato da baccellature. Affine ai candelieri è la croce d’altare, che presenta la statuina di Cristo in argento dorato, intorno al quale è presente una raggiera tipicamente barocca formata da raggi e spade.

A Pietro Provenzano, attivo nella seconda metà del XVII secolo, è attribuita la sigla PET PRO posta ai lati dello stemma di Messina su di un turibolo del tesoro liparese, in argento sbalzato, cesellato e lavorato a traforo con coppa baccellata (Fig. 8), che si aggiunge così al nutrito corpus di opere dell’artista, come l’ostensorio della chiesa Madre di Forza d’Agro, la cornice di cartagloria del museo Regionale di Messina e la pace a tavoletta con la figura di san Cono oggi nella chiesa Madre di Naso22.

A concludere questa carrellata di argenti di fattura messinese è l’opera di Giuseppe d’Angelo, un ostensorio databile tra la seconda metà del XVII e l’inizio del XVIII secolo (Fig. 9), stilisticamente affine a quello realizzato nel 1684 per la chiesa Madre di Fiumedinisi dal già menzionato Antonio Dominici23.

Tra le opere di fattura palermitana, sono presenti manufatti ascrivibili a due argentieri in parte contemporanei, Antonino Nicchi e Agostino Natoli, per i quali la coincidenza di iniziali ha posto non pochi problemi alla critica negli anni passati. Grazie agli studi di Silvano Barraja è stato possibile individuare nel puntino che intervalla le lettere A e N la nota distintiva adottata dal Nicchi, mentre un asterisco veniva postposto alle iniziali del Natoli (Figg. 1011)24.

Al Nicchi andrebbero dunque ascritti un ostensorio e una pisside portatile del tesoro liparota. Il primo (Fig. 12) è formato da una base mistilinea divisa in tre settori da volute sbalzate, sulla quale corre a giro l’iscrizione che, individuando il committente nella figura del vescovo Bernardo M. Beamonte, consente di collocarne l’anno di esecuzione tra il 1738 e il 1739. Il fusto si caratterizza per la presenza di una figura alata eseguita a fusione, che sostiene un globo attraversato da fascia zodiacale su cui poggia il chiaro simbolo cristologico del pellicano. La teca è di forma circolare e decorata sul coperchio con un susseguirsi di girali al di sotto di una crocetta apicale in argento dorato25. Al catalogo dello stesso argentiere, attivo a Palermo tra il 1736 e il 1781, va ascritto tra l’altro il sontuoso ostensorio in argento dorato con la figura di Sant’Ignazio, eseguito nel 1736 per la chiesa del Gesù di Casa Professa a Palermo26, insieme a un cospicuo gruppo di suppellettili liturgiche commissionate dalle monache per l’abbazia benedettina di Palma di Montechiaro. Fra queste si annoverano il fastoso tabernacolo architettonico d’argento dell’altare maggiore realizzato nel 1759 e vidimato dal console Antonio Pensallorto, un repositorio e un tronetto per l’esposizione eucaristica, un paio di calici e una pisside vidimati tutti dal console Giovanni Costanza tra il 1738 e il 1739 e, infine, l’ostensorio con il punzone del console Andrea Lambrosia del 1746, avente sulla base lo stemma dei Tomasi di Lampedusa27. Il punzone di Agostino Natoli28 è stato rinvenuto su ben tre opere del tesoro della Chiesa Madre di Lipari: un repositorio, una legatura di libro liturgico e un leggio, commissionati tutti dal vescovo Vincenzo M. De Francisco Galletti (1753-1769). L’alto numero di legature per libri e leggii sino a noi pervenuti recanti il punzone del Natoli lasciano pensare che l’artista avesse probabilmente conseguito una certa abilità e dimestichezza in questa specifica tipologia di manufatti29.

Degli argenti del tesoro liparese fa parte anche un calice prodotto da maestranze catanesi nel 1756, punzonato con le iniziali BB dell’argentiere intervallate da un puntino, ricondotte già dall’Accascina a Bartolomeo Bartolotta (Fig. 13). La studiosa attribuiva all’argentiere catanese una serie di opere tutte datate entro la prima metà del XVIII secolo, come un calice del 1737 nella chiesa di San Giuseppe a Enna, un calice del 1749 e un fermaglio da piviale del 1752, entrambi nel duomo di Catania30. Dello stesso Bartolotta risulta essere anche un ostensorio in stile rococò del 1753 oggi conservato nella Chiesa di Santa Maria dell’Odigitria a Niscemi31.

L’analisi di iscrizioni e stemmi araldici apposti su alcuni dei preziosi del tesoro della Cattedrale di Lipari ha consentito di individuare in qualche caso l’identità dei committenti legati alle singole opere. Dall’indagine emerge una committenza prettamente ecclesiastica intenta, con i suoi donativi nel corso dei secoli, a rendere ricche di tesori e testimonianze di devozione le chiese dell’isola di Lipari. Agli emblemi aristocratici sin qui menzionati, si aggiunge lo stemma del vescovo32 Giuseppe Candido (1627-1644), apposto su di un ostensorio raggiato realizzato da argentiere messinese, e su di un calice di modesta fattura, privo di marchi territoriali ma ascrivibile a argentiere siciliano. Il primo manufatto (Fig. 14) appartiene alla tipologia dell’ostensorio raggiato a sole, dalla peculiarità dei raggi fiammeggianti e lanceolati. Il piede è caratterizzato da una base circolare decorata a cesello, sul quale si eleva un fusto a balaustro con alla sommità un medaglione guarnito da volti angelici. Quanto al calice (Fig. 15), l’essenzialità delle decorazioni che interrompono la superficie liscia dell’argento nel solo sottocoppa baccellato dovevano renderlo particolarmente adatto alle celebrazioni ordinarie.

Il paliotto architettonico (Fig. 16) della Cattedrale merita un discorso a parte in quanto frutto di committenza civica e pubblica. L’opera è da riferirsi al 1768 circa, anno di vescovato del citato Mons. Galletti. I nomi di coloro i quali contribuirono alla realizzazione di questo antependium vengono ricordati in un’iscrizione che corre lungo la fascia inferiore dell’opera: MARIA AMENDOLA/& SINDACO/RUSSO/SINDACI […] D. IOSEPH BENAIA/NIMO BARRESI/DI CASIMIRI AMENDOLA/ATQUE; D. IOSEPH/IURATIS/D. FRANCISCI/EIUSDEM; REGGENTIBUS/CARNEVALE/SUB REGIMINE/POLICATTRO; D. ONUPHRIO/D. IOSEPH […]. Il pregevole manufatto è diviso in tre settori principali da paraste binate, al centro dei quali è collocata l’effige del Santo. I due comparti laterali sono entrambi occupati dallo stemma del comune di Lipari in rame dorato, costituito dalla stilizzazione del castello liparese che reca l’iscrizione PER TROPPO FEDELTÀ PORTO CORONA.

Il vescovo Bonaventura Attanasio (1844-1858) dotò la Cattedrale di un pastorale, un turibolo e di una navicella portaincenso. Il pastorale è strutturalmente composto da un’asta metallica mossa da tre nodi su cui si innesta il riccio apicale. Il turibolo (Fig. 17), dal coperchio traforato, presenta una decorazione con baccellature e motivi fitomorfici disposta su tre fasce orizzontali del vaso e sul cappelletto. La sospensione e la manovra dell’ondulazione rituale sono rese possibili da un congegno di quattro catenelle che si sviluppano da mini sculture con teste di cherubini. La navetta portaincenso si distingue dai più tradizionali esemplari con coperchio a due valve, per la presenza di un unico coperchio non ancorato alla conca. Si sviluppa su un basso fusto poggiante su piede circolare con corpo baccellato, così come baccellato è il coperchio; su entrambe le parti sono presenti cherubini alati eseguiti a fusione dalla funzione pratica di manico per la conca e per il coperchio. La navicella presenta ancora il cucchiaino originale a corredo dell’opera.

Il vescovo Ludovico Ideo (1858-1880) fu il donatore di numerose suppellettili liturgiche di fattura napoletana. Il suo stemma ricorre su una serie di tre piatti e un vassoio, su un servizio da lavabo e su un secchiello con aspersorio. Particolarmente gradevole appare il servizio da lavabo (Fig. 18), usato al momento della consacrazione, costituito dalla brocca a casco destinata a contenere l’acqua per la purificazione e dal bacile necessario a raccoglierla. La decorazione dell’acquamanile è concentrata lungo la parte superiore dell’orlo del piede a base circolare, ove una lavorazione a sbalzo riproduce un motivo strigilato nella parte inferiore e fitomorfico in corrispondenza dell’orlo superiore. Il bacile di forma circolare è contraddistinto dalla medesima decorazione presente sulla brocca.

Foto di Gaetano Di Giovanni

  1. Atlante dei Beni storico artistici delle Isole Eolie, a cura di C. Ciolino, Regione Siciliana, Messina 1995, pp. 45-63. []
  2. Atlante dei Beni…, 1995, pp. X-XI. []
  3. Alla base del quale si trovano le ricerche da me portate avanti a conclusione della mia formazione universitaria (tesi di laurea di M.M. Ziino, Gli Argenti della Cattedrale di Lipari, relatore Ch.ma Prof.ssa M.C. Di Natale, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea specialistica in Storia dell’Arte, A.A. 2010-2011). []
  4. G. C. Sciolla, Studiare l’arte. Metodo, analisi e interpretazione delle opere e degli artisti, Torino 2001, pp. 108-111. []
  5. Cfr. G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI, Palermo 1880-1883, ris. an. del 1980, pp. 601-602. []
  6. In quell’infelice circostanza, la Cattedrale fu messa a ferro e fuoco e l’intera Lipari fu posta sotto assedio, il suo abitato distrutto e la popolazione deportata  (Cfr. M. Giacomantonio, Navigando nella storia delle Eolie, Marina di Patti 2010, pp. 145-167). []
  7. La punzonatura è una tecnica molto antica basata sull’azione del punzone, formato da un’asta metallica avente alla sommità il disegno da riprodurre, che veniva impresso esercitando una spinta con un maglio o un martello contro la superficie da marchiare. Questa operazione necessaria per imprimere sul pezzo il marchio di garanzia, serviva a frenare le frodi e ad impedire la vendita di argenti di qualità inferiore da parte di artigiani disonesti. La legislazione relativa alla lavorazione e al controllo della qualità degli argenti in Italia si differenziava a seconda dello stato preunitario preso in considerazione. Nella penisola, la nascita di un marchio di bottega è documentato già intorno al XIII secolo, in concomitanza con l’affermazione delle corporazioni di mestiere, che si stabilizza solo tra XVII e XVIII secolo. Mentre l’epilogo di questa fase produttiva si verifica con l’unità nazionale, e più precisamente con la legge abrogativa del 1872, che liberalizzò definitivamente la fabbricazione e il commercio degli oggetti in argento, conservando solo un marchio facoltativo, che consisteva in una testa femminile turrita (l’Italia), volta a sinistra e accompagnata dalle cifre arabe 1,2 o 3, indicanti il titolo del metallo espresso in millesimi (Cfr. Storia degli argenti, a cura di K. Aschengreen Piacenti, Novara 1987, p. 231). []
  8. S. Barraja, I marchi degli argentieri e orafi di Palermo, saggio introduttivo di M.C. Di Natale, Milano 1996, p. 36. Cfr. pure M. Accascina, I marchi delle argenterie e oreficerie siciliane, Busto Arsizio 1976. []
  9. Le folte schiere di orafi e argentieri messinesi lavoravano in équipe, all’interno di botteghe dislocate principalmente nella via parallela alla vecchia strada dei Banchi e corrispondente all’attuale via Garibaldi, che si chiamava proprio via degli Orafi e degli Argentieri, riunite sotto l’egida di sistemi corporativi, che garantivano e vigilavano sull’operato e la produzione dei vari mestieri. Cfr. A. Pani, Gli argentieri e gli orafi in Sicilia (XVI – XVII – XVIII secolo), Messina 1996,  pp. 9-13. []
  10. M. Accascina, I marchi…, 1976, pp. 95-96. []
  11. G. Musolino, Argentieri messinesi tra XVII e XVIII secolo, Messina 2001, pp. 30-31. []
  12. M. Accascina, I marchi delle…, 1976, pp. 147-149. []
  13. D.R. di Ferdinando I del 5 dicembre 1823,riprodotto integralmente in E. Catello –C. Catello, I marchi dell’argenteria napoletana. Dal XV al XIX secolo, Napoli 1996, pp. 19, 147-149. []
  14. V. Donaver  -R. Dabbene, Argenti italiani dell’800. Punzoni di garanzia degli Stati Italiani, vol. I, Milano 1989, p pp. 137-140. []
  15. Come previsto dal D.R. di Ferdinando I del 4 marzo 1839. Cfr. E. Catello –C. Catello, I marchi dell’argenteria…, 1996, pp. 20, 152-153. []
  16. S. Barraja, I marchi degli argentieri …, 1996, pp. 99-102. []
  17. A. Pani, Gli argentieri e…, 1996, pp. 25-26. []
  18. Un esemplare analogo è conservato a Monforte San Giorgio a Messina. Cfr. G. Musolino, Argentieri messinesi…, 2001, pp. 49-50. []
  19. G. Musolino, Argentieri messinesi…, 2001, pp. 51-52. []
  20. G. Musolino, Argentieri messinesi…, 2001, pp. 46-47. []
  21. Breviario storico eoliano (Spigolature dall’antichità al III millennio), a cura di A. Adornato, Napoli 2007, p. 231. []
  22. G. Musolino, Argentieri messinesi…, 2001, pp. 61-62. []
  23. G. Musolino, Argentieri messinesi…, 2001, pp. 46, 55. []
  24. S. Barraja, I marchi di bottega degli argentieri palermitani, in Storia, critica e tutela dell’arte del Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale, atti del convegno a cura di M.C. Di Natale, Caltanissetta 2007, p. 522. []
  25. S. Barraja, I marchi…, 1996, p. 75. []
  26. S. Barraja, I marchi di bottega…, 2007, p. 522. []
  27. Arte e spiritualità nella terra dei Tomasi di Lampedusa: il Monastero benedettino del Rosario di Palma di Montechiaro, catalogo della mostra a cura di M.C. Di Natale-F. Messina Cicchetti, San Martino delle Scale 1999, pp. 96-100. []
  28. Agostino Natoli fu un orafo e argentiere attivo a Palermo tra il 1760 e il 1791. Opere da lui eseguite si trovano in varie città siciliane come Ciminna, Mazara del Vallo, Enna, Geraci Siculo e Siracusa. Cfr. S. Barraja, I marchi di bottega…,   2007. p. 522. []
  29. M.C. Di Natale e P. Allegra, schede nn. 42, 54, in Il Tesoro dei vescovi nel Museo diocesano di Mazara del Vallo, Marsala 1993, pp. 110, 114. Cfr. pure M. Vitella, scheda n. 41, in Argenti e cultura rococò nella Sicilia centro-occidentale, 1735-1789, catalogo della mostra a cura di S. Grasso-M.C. Gulisano, Palermo 2008, p. 348. G. Ingaglio, scheda n. 114, in in Il Tesoro dell’Isola. Capolavori siciliani in argento e corallo dal XV al XVIII secolo, a cura di S. Rizzo, Catania 2008, p. 880. []
  30. M. Accascina, I marchi…, 1976, pp. 155-156. []
  31. M. I. Randazzo, scheda n. 193, Il Tesoro dell’isola…, 2008 , pp. 973-974. []
  32. Breviario storico eoliano…, 2007,  p. 230. []