Giuseppe Abbate

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La cosmatesca in pittura. Origine e sviluppo

DOI: 10.7431/RIV10012014

Quella dei Cosmati fu una delle più importanti e significative esperienze artistiche medievali. La definizione di Cosmati prende il nome da un certo «Cosmatus», «magister marmorarius», documentato tra il 1264 e il 1292 e il cui nome figura in una delle lastre marmoree poste all’ingresso del Sancta Sanctorum, la cappella privata del papa nel Palazzo Lateranense. Sin dal tardo Ottocento si volle tuttavia estendere l’appellativo di Cosmati a tutti quei marmorari, legati da numerosi vincoli familiari, dediti alla realizzazione di apparati decorativi e scultoreo-architettonici prevalentemente caratterizzati da tarsie marmoree, pietre dure e paste vitree e operanti a Roma e nel territorio del cosiddetto Patrimonium Petri tra l’inizio del XII e la fine del XIII secolo1. La loro opera non interessò soltanto la decorazione pavimentale, che connotò in modo deciso i loro lavori (a Roma vanno ricordati per esempio i pavimenti dei SS. Quattro Coronati, di Santa Maria in Cosmedin, di San Clemente, di Santa Prassede e dei SS. Cosma e Damiano, tutti della prima metà del XII secolo, oltre a quello del Sancta Sanctorum, realizzato durante i lavori di rifacimento della cappella promossi tra il 1277 e il 1280 da papa Niccolò III)2, ma anche la realizzazione di arredi liturgici e apparati decorativi a carattere scultoreo e architettonico, tra i quali il candelabro pasquale di San Paolo fuori le Mura con Storie della Passione e Resurrezione, l’ambone di Santa Maria di Castello a Tarquinia, il portico della facciata e il portale maggiore del Duomo di Civita Castellana, i chiostri di San Giovanni in Laterano e di San Paolo fuori le Mura, e il monumento funebre di Guglielmo Durando in Santa Maria sopra Minerva3.

Lo stretto legame con l’antichità romana è tangibile in questi lavori, che trovavano così legittimazione nel riuso dei marmi antichi, connotati dal loro valore storico e aulico intrinseco e considerati non solo nella loro dimensione di “materia” da reimpiegare, ma anche e soprattutto in quella di “modello” da imitare. Un legame, quello con la classicità, che trovava un ulteriore punto di appoggio sul versante della committenza, in questo caso quella pontificia, che mirava al recupero dell’antichità, in particolar modo di quella costantiniana, per ammantarsi di un’aura di sacralità e regalità4. Tuttavia, non di imitazione passiva si trattava, ma di consapevolezza da parte degli artisti, nel caso specifico i Cosmati, delle loro capacità tecniche e stilistiche, come dimostrerebbe «la progressiva trasformazione riscontrabile nell’imitazione dell’antico, da mera necessità per sopperire alla mancanza di pezzi da reimpiegare, a confronto, se non a sfida, verso i loro artefici»5. D’altra parte, numerosi sono gli esempi riferibili in tal senso: dal capitello “all’antica” di San Lorenzo fuori le Mura, raffigurante una lucertola e un ranocchio, ritenuto da Winckelmann opera greca, al portico stesso del Duomo di Civita Castellana e al chiostro del Laterano, dove tutti i capitelli erano imitazioni, tranne uno, che fungeva da pietra di paragone per mostrare ed esaltare, senza timori reverenziali, l’abilità dei nuovi artefici6; dal leone dell’inizio del XIII secolo in Santi Apostoli a Roma7, che riprende esemplari antichi presenti in città, alla mensa con le scene della vita di Achille, realizzata in marmo nel IV secolo d.C. e decorata con tarsie marmoree e paste vitree nel corso del XIII secolo, proveniente da Santa Maria in Capitolio e oggi conservata presso i Musei Capitolini di Roma8.

L’arte dei Cosmati giunse perfino in Inghilterra, dove, nell’abbazia di Westminster, si trova il sepolcro di Edoardo il Confessore9, firmato da un “Petrus civis romanus”, forse la stessa personalità artistica che avrebbe realizzato la tomba di Enrico III, anch’essa a Westminster e decorata con i tipici intarsi e le tradizionali geometrie cosmatesche. Non è escluso che dietro questo artefice si celi Pietro d’Oderisio, uno dei maggiori scultori romani della fine del XIII secolo, forse collaboratore di Arnolfo di Cambio nella realizzazione del ciborio di San Paolo fuori le Mura, e certamente responsabile, assieme allo scultore toscano, della diffusione dell’arte gotica a Roma. Proprio in tal senso si ricorda la tomba che Pietro eseguì per Clemente IV nella chiesa San Francesco alla Rocca a Viterbo10, introducendo la tipologia di monumento funebre con la statua del defunto giacente e il baldacchino gotico, forse desunta da modelli inglesi durante la sua eventuale permanenza nell’isola britannica11. Proprio l’imporsi della nuova corrente artistica gotica e il conseguente mutamento di gusto decretarono una minore attenzione alla tradizione romana, che era stata uno dei punti di forza dell’arte dei Cosmati, la cui influenza sopravvisse così soltanto a livello decorativo, inserita in complessi scultorei e architettonici, assumendo la definizione di “cosmatesca”, ma continuando tuttavia ad evocare ancora l’Urbe e la sua tradizione12, come per esempio avverrà, per restare nell’ambito di Arnolfo, nei cibori di San Paolo fuori le Mura e di Santa Cecilia in Trastevere, nel monumento Annibaldi in San Giovanni in Laterano, e ancora nei monumenti funebri del cardinale De Braye a Orvieto e di Bonifacio VIII in Vaticano13.

Così, alla fine del XIII secolo, con la progressiva scomparsa dei Cosmati e della loro attività, sarà la pittura, quasi in una sorta di ideale passaggio di consegne, ad ereditare i motivi e gli schemi delle decorazioni cosmatesche e a tramandarle per tutta la prima metà del XIV secolo e, in alcuni casi, anche fino alla prima metà del XV.

La pratica di riprodurre, tramite la pittura murale, lastre di marmo e tarsie marmoree può già farsi risalire all’età ellenistica, sebbene trovi maggiore diffusione nel periodo compreso tra l’età dei Flavi (69-96) e l’inizio del II secolo, quando si assiste ad una notevole importazione nella penisola italiana di marmi bianchi e colorati. Proprio in questo arco di tempo si affermò in modo considerevole, almeno fino all’età tardo-antica, l’uso di decorare le pareti, e in particolare le zoccolature, delle abitazioni di ceto medio-alto con pitture riproducenti non solo intere lastre di marmo, con le relative venature, ma anche pannelli in opus sectile e incrostazioni marmoree (crustae), contraddistinti da schemi e motivi geometrici. Alcuni tra gli esempi più significativi in tal senso possono ritrovarsi non solo nelle aree centrali dell’impero, (insulae dell’Aquila e delle Pareti Gialle, Thermopolium sulla «Via di Diana» (Fig. 1), Collegio degli Augustales a Ostia; ambienti sottostanti il battistero lateranense, domus sotto la chiesa dei Santi Giovanni a Paolo, mausoleo dei Giulii della necropoli vaticana, «Ipogeo di Via Livenza» a Roma) ma anche in altre più o meno periferiche (sala nord sotto il duomo di Aquileia, aula imperiale di Luxor nel tempio di Ammone, sinagoga di Dura Europos e alcuni ambienti in edifici di Merida e Sagunto)14. Questo tipo di decorazione pittorica parietale troverà inoltre positivi riscontri anche in ambito paleocristiano, come dimostrano le pitture delle zoccolature delle pareti di numerosi cubicula delle prime catacombe romane, come nel caso di quella di Domitilla15.

Per quel che riguarda la vera e propria decorazione dipinta a finta cosmatesca ed il suo periodo di maggiore diffusione, tra fine del XIII secolo e prima metà del XIV, i primi episodi possono già essere rintracciati nella seconda metà degli anni ‘90 del Duecento: nel primo caso si tratta dell’affresco eseguito nel 1295 dal pittore umbro Rogerio da Todi nella chiesa di San Niccolò a Sangemini, in cui la Vergine è assisa su un trono architettonico con decorazioni cosmatesche, una delle maggiori innovazioni nella pittura di fine Duecento, e non più sul trono ligneo di origine bizantina, presente nelle Madonne di Cimabue e ancora, sebbene con alcune innovazioni in senso gotico, come le bifore che traforano il seggio, nella Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna16; l’altro interessante esempio, che peraltro coinvolge proprio uno dei Cosmati, è costituito dal monumento funebre realizzato da Giovanni di Cosma in Santa Maria Maggiore per il cardinale Consalvo Garcia Gudiel, vescovo di Albano, morto nel 1299, nel cui mosaico è raffigurato un trono architettonico con decori di tipo cosmatesco17.

Tuttavia, il motivo del trono architettonico in marmo decorato con tarsie marmoree, ma non ancora cosmatesche, e raffigurato secondo la vecchia struttura lignea e in tralice, quindi ancora in uno stadio di elaborazione tutt’altro che definitivo, viene adoperato per la prima volta da Duccio, già a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 del XIII secolo. Un’innovazione spaziale, questa, dovuta alla rivoluzionaria personalità artistica di Giotto, con cui Duccio, già in rapporto con la bottega di Cimabue, sarebbe entrato in contatto a Firenze, molto probabilmente nel periodo in cui lavorava alla Madonna Rucellai, commissionatagli nel 1285 dalla Compagnia dei Laudesi per la chiesa di Santa Maria Novella18. L’opera duccesca cui si fa riferimento è la vetrata del duomo di Siena con le Storie della Vergine, progettata e disegnata dal pittore senese tra il 1287 e il 1288: nello scomparto superiore, con l’Incoronazione della Vergine (Fig. 2), si trova un trono architettonico in marmo con dei semplici accenni di tarsie policrome, che si ritrovano poi nei seggi degli Evangelisti ai quattro angoli e perfino nel sepolcro raffigurato nel Seppellimento della Vergine dello scomparto inferiore19. Simile sarà la soluzione adottata qualche anno dopo ancora da Duccio nella Maestà del Kunstmuseum di Berna, collocabile nei primi anni ‘90 del ‘200, in cui il trono marmoreo è decorato con piccole losanghe bianche su fondo rosso e blu20. Sarà invece con la Maestà, eseguita tra il 1308 e il 1311 per il Duomo di Siena, che Duccio prenderà definitivamente coscienza di questa innovazione, realizzando un trono architettonico marmoreo, perfettamente frontale e non più in tralice, senza alcun legame con quelli arcaici lignei, e introducendo degli inserti decorativi cosmateschi, costituiti da tarsie rosse e blu su fondo oro21.

La novità del trono architettonico marmoreo con decorazioni cosmatesche trovò larga diffusione a Siena tra i numerosi pittori ducceschi, in particolare quelli di prima generazione. Basti pensare alla Maestà del Maestro di Badia a Isola del Museo Civico e d’Arte sacra di Colle Val d’Elsa (Fig. 3), in cui al trono marmoreo ormai prospettico si contrappone il suppedaneo, collocato ancora in tralice22, oppure alla Madonna col Bambino della Pinacoteca di Siena e alla Maestà della National Gallery di Londra, opere entrambe attribuite al Maestro degli Aringhieri23. Un altro caso in ambito senese è riscontrabile in Ugolino di Nerio, pittore duccesco di seconda generazione, che nel trono della Madonna col Bambino e un donatore, eseguita probabilmente per la chiesa che ancora la custodisce, Santa Maria del Prato a San Casciano Val di Pesa, inserisce dei motivi decorativi cosmateschi con tarsie bianche, rosse e nere, più piccoli nella parte superiore e più evidenti sul basamento del seggio24.

La decorazione a finta cosmatesca, oltre ad essere largamente impiegata nella pittura su tavola, godette di grande fortuna sia come ornamento degli edifici raffigurati negli affreschi sia come motivo decorativo di veri e propri elementi architettonici, quali ad esempio costoloni e colonne. In questo ambito, il centro di irradiazione e diffusione di questa tipologia decorativa fu il cantiere pittorico della Basilica di San Francesco ad Assisi, dove, tra la fine del ‘200 e i primi decenni del ‘300, operarono alcuni tra i più abili e noti artisti del tempo25.

Nella Basilica Superiore, i due scomparti affrescati dal Maestro di Isacco e raffiguranti Giacobbe che riceve la benedizione di Isacco e Isacco che respinge Esaù presentano già dei fregi decorativi a finto mosaico che ornano la parte alta e i cornicioni degli ambienti in cui si svolgono le scene. La stessa decorazione a finto mosaico, ma con motivi ornamentali che più si avvicinano a quelli cosmateschi, si riscontra in alcuni brani degli affreschi di Cimabue nel transetto e nelle partiture decorative dei troni e dei leggii rappresentati, presumibilmente dal giovane Giotto, nella Volta dei Dottori. Un uso più sistematico di tale tipologia decorativa veniva ancora fatto da Giotto nelle Storie di san Francesco, in cui la finta cosmatesca era impiegata non solo nelle partiture architettoniche dei numerosi edifici raffigurati (tra gli innumerevoli esempi si vedano la Rinuncia ai beni paterni, l’Apparizione al concilio di Arles, l’Omaggio dell’uomo semplice), ma anche nelle finte architetture, in particolare colonnine tortili e architravi, che fanno da cornice alle Storie26. Le stesse decorazioni a finta cosmatesca si ritrovano nuovamente, sempre ad opera di Giotto e dei suoi collaboratori, nella Basilica Inferiore, negli affreschi delle cappelle di San Nicola27 e della Maddalena. Anche qui, infatti, questo tipo di decorazione interessa sia gli edifici e gli ambienti rappresentati (si veda la Cena in casa di Levi nella Cappella della Maddalena, o il ricco edificio che fa da sfondo alla scena in cui San Nicola perdona il console, in quella di San Nicola (Fig. 4), sia i costoloni delle volte e le cornici che racchiudono le scene (Fig. 5). Proprio nella Cappella della Maddalena, alla mano di Giotto è attribuito il riquadro raffigurante San Rufino e Teobaldo Pantano (Fig. 6), in cui i fregi decorativi a finta cosmatesca che racchiudono la scena e solcano le due colonne tortili che affiancano la raffigurazione si contraddistinguono per l’estrema raffinatezza, conferendo peraltro all’intera rappresentazione un grande equilibrio compositivo28. Sempre nella Basilica Inferiore, per mano stavolta dei collaboratori di Giotto, tra cui in particolare il Maestro delle Vele, gli stessi motivi decorativi interessano la crociera sopra l’altare maggiore con le Allegorie francescane (Fig. 7) e i Miracoli post mortem 29.

Proprio nella Basilica Inferiore di Assisi si trova una decorazione pittorica a finta cosmatesca tra le più raffinate e organiche, per l’esemplarità, la complessità e l’omogeneità dei motivi decorativi che la contraddistinguono. Si tratta di quella che orna e racchiude le Storie di san Martino, affrescate nell’omonima cappella da Simone Martini su commissione di Gentile Partino da Montefiore30. La finta cosmatesca è ben distinguibile nelle partiture architettoniche delle Storie vere e proprie, come nella Messa miracolosa, nel Sogno in chiesa di sant’Ambrogio, nell’Investitura di Martino a cavaliere, dove è costituita dal tipico motivo, che potremmo definire “a farfalla”, e dalla tradizionale cromia rosso-nero-bianca con tracce d’oro, o nel Miracolo del fuoco, in cui il nero e il rosso sono sostituiti dall’azzurro e dall’oro, che conferiscono alla decorazione un tono ancor più delicato ed elegante. Tuttavia, è nelle cornici decorative che inquadrano i busti di santi cavalieri, vescovi, papi, eremiti e fondatori d’ordini rappresentati negli intradossi dei finestroni della cappella, che si ritrova un vero e proprio “campionario” di motivi a finta cosmatesca: dalla tipologia a stella esagonale bianca e rossa (Fig. 8), presente, con una diversa cromia, anche nei due fregi che nella Maestà senese racchiudono i clipei con Cristo, santi e profeti (Fig. 9), a quella più tradizionale, e già incontrata nelle Storie, in nero, rosso, bianco e oro, fino ai motivi esagonali e stellati in bianco, rosso, blu e oro che connotano le rappresentazioni a figura intera dei Santi Antonio da Padova, Francesco d’Assisi, Luigi di Francia, Ludovico di Tolosa e delle Sante Maria Maddalena, Caterina d’Alessandria (Fig. 10), Chiara ed Elisabetta d’Ungheria31.

Ancora nella Basilica Inferiore, la decorazione pittorica a finta cosmatesca venne impiegata anche da Pietro Lorenzetti come cornice decorativa delle Storie della Passione, affrescate nel transetto sinistro. Sebbene non impiegati sistematicamente come nel caso di Simone Martini e della vicina Cappella di San Martino, tuttavia questi motivi decorativi possono essere colti sia negli elementi architettonici veri e propri della cappella, come nel caso del margine esterno della volta, sia, come già visto nei precedenti casi, nelle partiture architettoniche degli edifici raffigurati nelle scene, per esempio nel fregio decorativo che orna la parete alle spalle di Cristo nell’Ultima Cena32.

Il merito della diffusione della finta cosmatesca in ambito pittorico va certamente attribuito in gran parte allo stesso Giotto, che ne avrebbe fatto ancora largo uso nei fregi decorativi che racchiudono le scene raffigurate sia negli affreschi padovani della Cappella Scrovegni33 (Fig. 11) sia in quelli delle cappelle Peruzzi e Bardi in Santa Croce a Firenze34. In tal senso, l’esempio di Giotto sarebbe poi stato seguito dai suoi numerosi allievi e seguaci attivi nelle aree in cui questi si trovò ad operare, in una sorta di immaginaria “regione culturale giottesca”, che partendo dall’Italia centrale, con Assisi e Firenze, passa da Rimini, per giungere infine a Padova, senza dimenticare Roma e Napoli, dove poche sono le tracce del passaggio del maestro fiorentino.

Proprio a Napoli, la finta cosmatesca, sempre a livello di decorazione di architetture dipinte o di elementi architettonici veri e propri, avrebbe trovato fortuna grazie alla cultura protogiottesca e cavalliniana qui diffusasi tra la fine del ‘200 e l’inizio del ‘300: dalle Storie della Maddalena eseguite da un Maestro protogiottesco in San Lorenzo ai pilastri polistili del deambulatorio della medesima chiesa, fino ai cicli di affreschi realizzati da Pietro Cavallini, in particolare quelli della Cappella di Sant’Aspreno in Duomo e quelli della Cappella Brancaccio in San Domenico35 (Fig. 12).

Anche in Sicilia è possibile ritrovare, sebbene in minima quantità, alcuni esempi di decorazione dipinta a finta cosmatesca, collocabili tra i decenni centrali del ‘300 e i primi decenni del ‘400 e concentrati a Palermo. È infatti questa la città che in Sicilia intrattiene le maggiori relazioni commerciali, politiche e culturali con le aree della penisola in cui è maggiormente diffusa questa tipologia decorativa, ossia il l’Italia centrale e i centri toscani in particolare. Infatti, a partire dal XII secolo e poi gradualmente fino ai secoli XIV-XV, quando dall’ “immigrazione” si passa all’integrazione vera e propria nel tessuto sociale e politico della città, Palermo fu meta, tra gli altri, di pisani, fiorentini, senesi e lucchesi, che occupavano in particolare l’area compresa tra la Kalsa a oriente e Porta Patitelli a occidente. In quest’area, delimitata a settentrione da Porta San Giorgio e a meridione dalla Basilica di San Francesco d’Assisi, si andavano progressivamente stabilendo queste comunità di immigrati toscani, nella “Strada dei Pisani” (che costituivano il gruppo più numeroso), la cosiddetta ruga Pisanorum, Pisarum, de Pisis o Logie Pisanorum36.

Si tratta soprattutto di tavole dipinte giunte, appunto, dall’area tirrenica settentrionale o realizzate in loco ma comunque rientranti nell’ambito di quella cultura figurativa.

Procedendo in senso cronologico, la prima opera che è dato incontrare è la Madonna dell’Umiltà di Bartolomeo Pellerano da Camogli (Fig. 13), firmata e datata 1346, proveniente dalla Basilica di San Francesco d’Assisi (dalla cappella dei Genovesi o da quella dei Disciplinati di San Nicolò)37 e oggi alla Galleria Regionale della Sicilia, nella quale, secondo Roberto Longhi, «la proprietà del parlare senese e in accento puramente martiniano nel 1346 è anzi così ineccepibile da indurci all’ipotesi che il pittore l’abbia appresa dove era possibile farlo tra il ’40 e il ’44 e cioè non già a Siena, ma in curia, ad Avignone»38. I motivi decorativi a finta cosmatesca, che conferiscono al dipinto, come già sottolineava Longhi, un’eleganza degna della cultura martiniana, interessano i due pennacchi dell’arco trilobato, entro cui sono raffigurati l’angelo annunciante e la Vergine annunciata, e il fregio decorativo che racchiude su tre lati il dipinto. La cromia delle decorazioni è in bianco, blu e oro, come in oro sono le stelle a otto punte racchiuse entro clipei che scandiscono il fregio.

L’altra importante opera presente in Sicilia in cui figurano motivi decorativi a finta cosmatesca è quella definita ancora da Longhi l’ «importazione più eletta»39 tra i dipinti giunti in Sicilia, ossia il Ruolo dei confrati defunti (Fig. 14), ora al Museo Diocesano di Palermo, eseguito, come riporta l’iscrizione posta in basso, da Antonio Veneziano nel 1388 per la Confraternita di San Nicolò lo Reale in San Francesco40, la stessa Compagnia di Disciplinati cui forse apparteneva la Madonna di Bartolomeo da Camogli41. Anche qui, come per il dipinto di Bartolomeo, i motivi a finta cosmatesca occupano i due pennacchi che affiancano il timpano in cui è raffigurata la Flagellazione di Cristo. La decorazione, realizzata con una cromia rossa, nera, bianca e dorata, racchiude in due tondi le figure della Vergine e di san Giovanni Evangelista dolenti.

Altre due tavole palermitane, ma legate ancora alla cultura figurativa toscana che influenza la pittura siciliana tra fine ‘300 e primi decenni del ‘400, presentano motivi decorativi a finta cosmatesca, in ambedue i casi come ornamento del trono della Vergine: si tratta del polittico proveniente dal monastero di Santa Caterina al Cassaro di Palermo, oggi alla Galleria Regionale, raffigurante appunto la Madonna in trono tra i santi Caterina d’Alessandria, Paolo, Pietro e Domenico, opera degli inizi del XV secolo e in passato attribuita a Niccolò di Magio, pittore senese attivo a Palermo tra il 1399 e il 1430, e della Madonna del latte tra i santi Giovanni Battista e Caterina d’Alessandria del Museo Diocesano, eseguita intorno al 1420 da un ignoto maestro42.

Sempre a Palermo, un ulteriore esempio di cosmatesca dipinta è rintracciabile nel soffitto dipinto della Sala Magna dello Steri, o Palazzo Chiaromonte, eseguito tra il 1377 e il 1380 da Simone da Corleone, Cecco di Naro e Pellegrino Darena da Palermo per volere di Manfredi III e raffigurante storie bibliche, classiche e cavalleresche43. Per ognuno dei cicli figurativi rappresentati, e prendendo spunto da essi, Ferdinando Bologna ha individuato le personalità artistiche del Maestro del Giudizio di Salomone, del Maestro di Aristotele cavalcato dalla cortigiana, del Maestro del falconiere44. Ad uno di questi maestri, quello che risulta più aggiornato sulla cultura figurativa extra-isolana, il cosiddetto Maestro napoletano di tradizione giottesca, Bologna attribuisce una delle due versioni delle Storie degli Argonauti raffigurate sul soffitto45. È in quest’ultimo ciclo figurativo che le scene rappresentate sono affiancate da fasce decorative a finta cosmatesca, anche qui in rosso, bianco e nero (Fig. 15), ulteriore testimonianza della conoscenza, da parte di questo Maestro, della cultura giottesca, e in particolare di quella diffusa nell’ambiente napoletano, cui si è fatto cenno sopra46. E proprio a questo Maestro, o comunque alla cultura giottesca di matrice napoletana, sarebbero da attribuire gli affreschi con i santi Antonio Abate e Giovanni Battista, incorniciati da una fascia decorativa a cosmatesca dipinta (Fig. 16) e, assieme alla Madonna col Bambino e angeli, parti superstiti del ciclo pittorico, databile all’incirca tra il 1380 e il 1390, che decorava la chiesa di Santa Maria degli Angeli a Baida e che rientra nell’ambito della committenza dello stesso Manfredi III47.

Credo inoltre sia interessante citare, proprio per l’effetto pittorico che doveva scaturirne, sebbene non si tratti di una cosmatesca dipinta, ma di un motivo decorativo realizzato con vere e proprie tessere, l’edicola che sovrasta il portale del prospetto meridionale del palermitano Palazzo Sclafani. La struttura è composta da due colonnine che sorreggono un timpano entro il quale si apre un arco trilobato. Al di sopra del timpano è collocata l’aquila marmorea di Bonaiuto Pisano, datata 132948; al di sotto, all’interno dell’arco trilobato, sono scolpiti a rilievo gli stemmi degli Sclafani, degli Aragonesi e della Città di Palermo. Proprio lo stemma nobiliare degli Sclafani, raffigurato in alto e più grande rispetto agli altri, è inquadrato ai quattro angoli da motivi decorativi cosmateschi, alternati in blu e oro e in rosso e oro (Fig. 17), oggi purtroppo rovinati e poco visibili a causa della fuliggine che ricopre l’intera edicoletta.

Infine, per restare ancora in Sicilia, secondo Giovanni Travagliato sarebbero di derivazione cosmatesca i fregi decorativi che ornano e inquadrano alcuni affreschi collocabili cronologicamente nella seconda metà del XV secolo e concentrati in particolare nell’area madonita e nebroidea dell’isola: è il caso, per esempio, della santa Caterina affrescata intorno al 1494 su una colonna della Matrice Vecchia di Castelbuono, del san Filippo d’Argirò raffigurato su uno dei pilastri della chiesa di San Giacomo a Geraci Siculo o ancora dei brani di affreschi dipinti su una colonna rinvenuta alcuni anni fa sotto il pavimento della Chiesa Madre di Mistretta e raffiguranti verosimilmente, anche in base agli attributi iconografici, i santi Antonio Abate e Vito49.

Se la decorazione dipinta a finta cosmatesca ha goduto di larga fortuna soprattutto tra la fine del ‘200 e la prima metà del ‘300, credo sia tuttavia interessante notare come ancora nel corso del ‘400 sia possibile imbattersi in questa tipologia decorativa, in affresco, su tavola e perfino in miniatura. Ad esempio, nella scena in cui Santa Caterina d’Alessandria disputa con i filosofi pagani (Fig. 18), facente parte delle Storie della santa affrescate da Masolino tra il 1428 e il 1431 nella Cappella Branda Castiglioni in San Clemente a Roma50, è possibile scorgere sulla sinistra l’intradosso di una finestra così decorato. Ancora, inserti dello stesso motivo decorativo ornano il trono della Vergine nella tavola realizzata nel 1449 da Girolamo di Giovanni e conservata presso la Pinacoteca Civica di Camerino, in cui sono raffigurati anche i santi Antonio da Padova e Antonio Abate51. Infine, per quel che riguarda la miniatura, si possono citare due esempi: il Messale di San Piero in Mercato, eseguito da Francesco d’Antonio intorno al 1419 e conservato nel Museo di San Marco a Firenze, nel quale la Crocifissione del foglio 127 (Fig. 19) è incorniciata da un fregio a finta cosmatesca bianca, rossa e blu52, e l’Antifonario realizzato da Sano di Pietro e Venturino Mercati intorno al 1460 e custodito presso il Museo Civico Medievale di Bologna, in cui, nel foglio 54, la figura di san Giovanni Evangelista (Fig. 20) è racchiusa da un fregio decorativo tanto singolare quanto raffinato, costituito da una cosmatesca a stelle esagonali in bianco e blu a sua volta inclusa in una cornice rosata53.

Dagli esempi qui riportati credo sia dunque evidente come la decorazione dipinta a finta cosmatesca, tra la fine del ‘200 e il ‘300, con alcuni casi episodici nel ‘400, sia stata largamente impiegata in diversi ambiti della produzione figurativa: dai singoli dipinti su tavola ai grandi cicli di affreschi fino alla decorazione di veri e propri elementi architettonici.

  1. Si veda in proposito: E. Bassan, ad vocem “Cosmati”, in Enciclopedia dell’arte medievale, vol. V, Roma 1994, pp. 366-375 (in cui è riportata un’ampia bibliografia) e in part. p. 366; A. Monciatti, I «Cosmati»: artisti romani per tradizione familiare, in Artifex bonus. Il mondo dell’artista medievale, a cura di E. Castelnuovo, Roma-Bari 2004, pp. 90-101, e in part. p. 90. Si veda anche: M. Durliat, L’arte romanica, 1982, ed. cons. Milano 1994, pp. 204-205; M. D’Onofrio, L’arte italiana del Medioevo, in P. Morel, D. Arasse, M. D’Onofrio, L’arte italiana dal IV secolo al Rinascimento, 1997, ed. cons. Milano 1999, pp. 17-145, e in part. pp. 94, 142. []
  2. M. Righetti Tosti-Croce, Il Sancta Sanctorum: Architettura, in Il Palazzo Apostolico Lateranense, a cura di C. Pietrangeli, Firenze 1991, pp. 51-53 e in part. pp. 52-53; E. Bassan, ad vocem “Cosmati”, 1994, pp. 368, 371, 374; A. Monciatti, I «Cosmati»…, 2004, pp. 90-91. []
  3. E. Bassan, ad vocem “Cosmati”, 1994, pp. 367-368, 372, 374; M. D’Onofrio, L’arte italiana…, 1997, ed. 1999, p. 94; A. Monciatti, I «Cosmati»…, 2004, pp. 91, 94, 96. []
  4. E. Bassan, ad vocem “Cosmati”, 1994, pp. 366-367, 371, 373. []
  5. A. Monciatti, I «Cosmati»…, 2004, p. 98. []
  6. Ibidem. []
  7. Sul basamento del leone è possibile scorgere l’iscrizione della bottega di provenienza, quella dei Vassalletto, («Bassallectus»), attivi a Roma tra il XII e il XIII secolo e rientranti nell’ambito stilistico dei Cosmati. Si veda a riguardo: E. Bassan, ad vocem “Cosmati”, 1994, p. 372. []
  8. A. Monciatti, I «Cosmati»…, 2004, p. 95. []
  9. L’arca venne realizzata per volontà di Enrico III, distrutta da Enrico VIII e ricostruita tra il 1556 e il 1560. In proposito cfr. oltre, nota 11. []
  10. Il monumento funebre, alterato rispetto alla sua struttura originale, era originariamente collocato in un’altra chiesa viterbese, Santa Maria di Gradi, e recava sul fondo, sotto l’arco, l’iscrizione «Petrus Oderisii sepulchri fecit hoc opus», già parzialmente leggibile alla fine del XVII secolo e in seguito del tutto scomparsa. A riguardo cfr. oltre, nota 11. []
  11. E. Bassan, ad vocem “Cosmati”, 1994, p. 374; A. M. D’Achille, ad vocem “Pietro di Oderisio”, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. IX, Roma 1998, pp. 404-406 e in part. pp. 404-405; A. Monciatti, I «Cosmati»…, 2004, p. 94. Al di là del problema dell’autografia di Pietro d’Oderisio in riferimento ai sepolcri di Edoardo il Confessore e di Enrico III, all’interno dell’abbazia di Westminster si trova un altro lavoro collegabile all’arte cosmatesca, ossia il pavimento del presbiterio, firmato da un certo Odericus (o Odoricus). La presenza di questo tipo di opere nell’abbazia inglese potrebbe essere stata la diretta conseguenza dell’opera dell’abate Richard de Ware, che “arruolò” alcuni marmorari romani durante i suoi viaggi in Italia, dai quali peraltro portò in Inghilterra alcune «lapides de Urbe», come si legge sulla sua tomba, custodita anch’essa all’interno dell’abbazia (A. M. D’Achille, ad vocem “Pietro…, 1998, pp. 404-405). []
  12. E. Bassan, ad vocem “Cosmati”, 1994, p. 374; A. Monciatti, I «Cosmati»…, 2004, pp. 94, 98. []
  13. A riguardo vedi: G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, I, Dall’antichità a Duccio, 1968, ed. cons. Firenze 1988, pp. 318-320; F. Negri Arnoldi, Storia dell’arte, Milano 1968, II, pp. 45-52. []
  14. Si veda in proposito: K. A. Kelly, Motifs in opus sectile and its painted imitation from the Tetrarchy to Justinian, Ann Arbor 1987, pp. 16-17; S. Falzone, L’imitazione dell’opus sectile nella pittura tardo antica a Roma e a Ostia, in I marmi colorati della Roma imperiale, catalogo della mostra (Roma, Mercati di Traiano, 28 settembre 2002-19 gennaio 2003) a cura di M. De Nuccio, L. Ungaro, Venezia 2002, pp. 171-174. []
  15. Sulle decorazioni a finto marmo delle catacombe romane si veda: P. Pergola, Le catacombe romane. Storia e topografia, Roma 1987, p. 80. []
  16. L. Bellosi, La pecora di Giotto, Torino 1985, p. 124. []
  17. L. Bellosi, La pecora…, 1985, pp. 125, 144 nota 61 (in cui viene riportata l’epigrafe iscritta sul monumento: «Hoc opus fecit Iohannes magistri Cosmae civis romanus»); E. Bassan, ad vocem “Cosmati”, 1994, p. 374; A. Monciatti, I «Cosmati»…, 2004, p. 94. []
  18. Sulla Madonna Rucellai si veda: L. Bellosi, Il percorso di Duccio, in Duccio. Alle origini della pittura senese, catalogo della mostra (Siena, Santa Maria della Scala-Museo dell’Opera del Duomo, 4 ottobre 2003-11 gennaio 2004) a cura di A. Bagnoli, R. Bartalini, L. Bellosi, M. Laclotte, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, pp. 118-145, e in part. p. 118 e le relative note a fine testo, in cui è riportata un’ampia bibliografia. []
  19. L. Bellosi, La pecora…,  1985, pp. 173-174, 178-179; G. Chelazzi Dini, Pittura senese dal 1250 al 1450, in G. Chelazzi Dini, A. Angelini, B. Sani, Pittura senese, 1997, ed. cons. Milano 2002, pp. 9- 261, e in part. pp. 20, 28-31; L. Bellosi, Il percorso…, 2003, pp. 128-130; A. Bagnoli, scheda n. 26 (San Giovanni Evangelista, Incoronazione della Vergine, San Matteo; San Bartolomeo, Sant’Ansano, Assunzione della Vergine, San Crescenzio, San Savino; San Luca, Seppellimento della Vergine, San Marco), in Duccio…, 2003, pp. 166-180, e in part. pp. 166-168. L’interesse di Duccio per le innovative idee di Giotto nella resa dello spazio avrebbe trovato conferma in un’altra opera del pittore senese, la cosiddetta Madonna Stoclet, in cui il davanzale marmoreo sorretto da mensoline dal quale sembra affacciarsi la Vergine non fa altro che riprendere le mensole dipinte da Giotto al di sopra delle Storie di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi (L. Bellosi, La pecora…, 1985, pp. 132, 179; G. Chelazzi Dini, Pittura senese…, 1997, ed. 2002, p. 29; L. Bellosi, Il percorso…, 2003, p. 136). []
  20. L. Bellosi, La pecora…, 1985, p. 174; G. Chelazzi Dini, Pittura senese…, 1997, ed. 2002, p. 28; L. Bellosi, Il percorso…, 2003, p. 130; V. M. Schmidt, scheda n. 27 (Madonna col Bambino e angeli), in Duccio…, 2003, pp. 184-186, e in part. p. 184. Alessandro Bagnoli (scheda n. 26, San Giovanni Evangelista…, 2003, p. 166) accosta la Maestà di Berna alla vetrata del duomo di Siena per quanto riguarda il motivo del trono architettonico. []
  21. G. Chelazzi Dini, Pittura senese…, 1997, ed. 2002, pp. 35-50; L. Bellosi, Il percorso…, 2003, p. 140; G. Ragionieri, scheda n. 32 (Maestà), in Duccio…, 2003, pp. 208-218, e in part. p. 214. []
  22. L. Bellosi, La pecora…, 1985, p. 166; G. Chelazzi Dini, Pittura senese…, 1997, ed. 2002, p. 28; A. Bagnoli, scheda n. 39 (Madonna col Bambino e angeli), in Duccio…, 2003, pp. 282-284, e in part. p. 282. []
  23. M. Merlini, “Maestro degli Aringhieri”, in Duccio…, 2003, pp. 306-307, e in part. p. 307; M. Merlini, scheda n. 45 (Madonna col Bambino), in Duccio…, 2003, p. 310. []
  24. A. Galli, scheda n. 55 (Madonna col Bambino e il donatore), in Duccio…, 2003, pp. 354-356. []
  25. Si veda in proposito: G. C. Argan, Storia…, 1968, ed. 1988, I, pp. 3-30; F. Negri Arnoldi, Storia…, 1968, II, pp. 117-130, 155-168. []
  26. Sulle decorazioni a finta cosmatesca nella Basilica Superiore si veda in particolare: L. Bellosi, La pecora…, 1985, p. 150. []
  27. Sugli affreschi della Cappella di San Nicola si veda: S. Romano, Le botteghe di Giotto. Qualche novità sulla cappella di San Nicola nella basilica inferiore di Assisi, in Medioevo: le officine, atti del convegno internazionale di studi (Parma, 22-27 settembre 2009) a cura di A. C. Quintavalle, Milano 2010, pp. 584-596. []
  28. Sull’affresco raffigurante san Rufino e Teobaldo Pantano nella Cappella della Maddalena si veda: F. Todini, Pittura del Duecento e del Trecento in Umbria e il cantiere di Assisi, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1986, II, pp. 375-413, e in part. p. 395. []
  29. Sugli affreschi assisiati di Giotto e dei suoi collaboratori si veda: L. Bellosi, La pecora…, 1985; F. Todini, Pittura…, 1986, II, pp. 383-390; A. Tomei, ad vocem “Giotto”, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, VI, Roma 1995, pp. 649-675, e in part. pp. 655-660, 668-669; S. Romano, Roma, Assisi, in Pittura murale in Italia, I, Dal tardo Duecento ai primi del Quattrocento, a cura di M. Gregori, Bergamo 1995, pp. 14-39; A. Delpriori, Giotto. Storie di San Francesco, in I colori di Giotto. La Basilica di Assisi, restauro e restituzione virtuale, catalogo della mostra (Assisi, Basilica di San Francesco-Palazzo del Monte Frumentario, 11 aprile-5 settembre 2010) a cura di G. Basile, Cinisello Balsamo (Milano) 2010, pp. 38-45; S. Romano, Le botteghe…, 2010, pp. 584-596. A riguardo si veda anche la già ricordata monografia di Luciano Bellosi (La pecora…, 1985). []
  30. Gentile da Montefiore, nato nel quinto decennio del ‘200 a Montefiore dell’Aso, nelle Marche, ed entrato a far parte dell’ordine francescano, fu nominato cardinale nel 1300 da Bonifacio VIII col titolo della chiesa dei Santi Martino e Silvestro ai Monti. Si veda in proposito: G. Chelazzi Dini, Pittura…, 1997, ed. 2002, p. 60; P. Leone de Castris, Simone Martini, Milano 2003, p. 74. []
  31. Sugli affreschi assisiati di Simone Martini e sulla relative decorazioni a finta cosmatesca si veda: F. Todini, Pittura…, 1986, pp. 395-400; S. Romano, Roma…, 1995, p. 39; G. Chelazzi Dini, Pittura…, 1997, ed. 2002, pp. 59-67; P. Leone de Castris, Simone…, 2003, pp. 74-120. Sulla raffigurazione dei santi “angioini” nella Cappella di San Martino e sul loro valore simbolico si veda: D. Norman, Sanctity, kingship and succession. Art and dynastic politics in the Lower Church of Assisi, in “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, LXXIII, 3, 2010, pp. 297-334. []
  32. Sulle Storie della Passione di Pietro Lorenzetti e sulle relative decorazioni a finta cosmatesca si veda: F. Todini, Pittura…, 1986, pp. 395-400; S. Romano, Roma…, 1995, pp. 39-41; G. Chelazzi Dini, Pittura…, 1997, ed. 2002, pp. 115-122. []
  33. Sugli affreschi della Cappella Scrovegni si veda: F. D’Arcais, Pittura del Duecento e Trecento a Padova e nel territorio, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, a cura di E. Castelnuovo, I, Milano 1986, pp. 150-171, e in part. pp. 151-155; F. Flores D’Arcais, Le Venezie, in Pittura murale in Italia, I, Dal tardo Duecento ai primi del Quattrocento, a cura di M. Gregori, Bergamo 1995, pp. 120-135, e in part. p. 122. []
  34. Sugli affreschi delle cappelle Peruzzi e Bardi in Santa Croce si veda: G. Ragionieri, Pittura del Trecento a Firenze, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, a cura di E. Castelnuovo, I, Milano 1986, pp. 283-314, e in part. pp. 291-293; A. Tartuferi, Firenze, in La pittura murale in Italia, I, Dal tardo Duecento ai primi del Quattrocento, a cura di M. Gregori, Bergamo 1995, pp. 46-61, e in part. pp. 50-53; A. Tomei, ad vocem “Giotto”, VI, 1995, pp. 670-672. []
  35. Sulla cultura protogiottesca e cavalliniana a Napoli tra fine ‘200 e inizio ‘300 e sulla diffusione della decorazione  a finta cosmatesca si veda: F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli. 1266-1414, Roma 1969, pp. 94-96, 115-126; P. Leone de Castris, Pittura del Duecento e del Trecento a Napoli e nel Meridione, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1986, II, pp. 461-512, e in part. pp. 464, 477-478; P. Leone de Castris, Italia meridionale, in Pittura murale in Italia, a cura di M. Gregori, I, Dal tardo Duecento ai primi del Quattrocento, Bergamo 1995, pp. 180-202, e in part. pp. 187, 190. []
  36. In proposito, nella prima metà del XVII secolo, Vincenzo Di Giovanni (Palermo Restaurato, ms. 1627, 1872, ed. a cura di M. Giorgianni, A. Santamaura, Palermo 1989, pp. 150, 410 n. 351) scriveva: “La seconda strada traversante è quella della Loggia. Incomincia dal Cassaro da una strada piena di librari e merceri, che dicesi la strada di Pisa, perché eran Pisani tutti quei, che facevano in quella tale esercizio”. A riguardo si veda anche: A. Mongitore, Storia delle chiese di Palermo. I conventi, ms. XVIII secolo, ed. a cura di F. Lo Piccolo, Palermo 2009, I, pp. 230-231; G. Palermo, Guida istruttiva per Palermo e suoi dintorni riprodotta su quella del Cav. D. Gaspare Palermo dal beneficiale Girolamo Di Marzo Ferro regio cappellano curato dei reali veterani, 1858, ed. rist. anast. Palermo 1984, p. 613; C. De Seta, L. Di Mauro, Palermo, 1980, ed. cons. Roma-Bari 2002, p. 42; G. Petralia, Pisa e la Sicilia, in Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli Etruschi ai Medici, catalogo della mostra (Pisa, Arsenali Medicei, 13 setembre-9 dicembre 2003) a cura di M. Tangheroni, Ginevra-Milano 2003, pp. 217-221, e in part. pp. 218-219; E. I. Mineo, Palermo 1290-1470: gruppi e spazi sociali, in Storia di Palermo, diretta da R. La Duca, IV, Dal Vespro a Ferdinando il Cattolico, Palermo 2008, pp. 143-171, e in part. p. 159; F. D’Angelo, Una casa grandissima: l’hospicium magnum di Ranuccio Frederici (XIV secolo), in “Salvare Palermo”, 35, 2013, pp.14-17, e in part. p. 14. []
  37. Per quel che riguarda la Madonna dell’Umiltà di Bartolomeo da Camogli fondamentale è lo studio di Anna De Floriani (Bartolomeo da Camogli, Genova 1979). Sulla collocazione originaria del dipinto si veda anche: F. Rotolo, La Basilica di San Francesco d’Assisi e le sue cappelle. Un monumento unico della Palermo medievale, Palermo 2010, pp. 89-93. []
  38. R. Longhi, Frammento siciliano (1953), in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, VIII, 1, “Fatti di Masolino e Masaccio” e altri studi sul Quattrocento. 1910-1967, Firenze 1975, pp. 143-177, e in part. p. 145. []
  39. Idem, p. 147. Allo stesso modo la pensava Gioacchino Di Marzo (La pittura in Palermo nel Rinascimento, Palermo 1899, p. 47), che definiva l’opera “di miglior magistero di espressione e di un merito superiore di stile, che più si accosta allo sviluppo dell’arte nel quattrocento”. []
  40. Sul dipinto di Antonio Veneziano si veda in particolare: P. Santucci, La produzione figurativa in Sicilia dalla fine del XII secolo alla metà del XV, in Storia della Sicilia, diretta da R. Romeo, V, Napoli 1981, pp. 139-230, e in part. p. 179; M. C. Di Natale, La pittura pisana del Trecento e dei primi del Quattrocento in Sicilia, in Immagine di Pisa a Palermo, Atti del convegno di studi sulla pisanità a Palermo e in Sicilia nel VII centenario del Vespro (Palermo-Agrigento-Sciacca, 9-12 giugno 1982), Palermo 1983, pp. 269-283, e in part. p. 274; M. C. Di Natale, Capolavori d’arte del Museo Diocesano di Palermo. Ex sacris imaginibus magnum fructum, in Capolavori d’Arte del Museo Diocesano. Ex sacris imaginibus magnum fructum, catalogo della mostra (Palermo, Palazzo Arcivescovile, 27 aprile-31 maggio 1998) a cura di M. C. Di Natale, Palermo 1998, pp. 19-103, e in part. pp. 42-44; M. C. Di Natale, Il Museo diocesano di Palermo, in Interventi sulla «questione meridionale». Saggi di storia dell’arte, a cura di F. Abbate, Roma 2005, pp. 401-409, e in part. p. 405. Ancora sul dipinto di Antonio, e più in generale sul ruolo delle confraternite religiose nella committenza di opere d’arte a Palermo tra XIV e XV secolo, si veda: G. Bresc Bautier, Artistes, patriciens et confréries. Production et consommation de l’oeuvre d’art à Palerme et en Sicile occidentale (1348-1460), Roma 1979, pp. 75-76, 209; G. Travagliato, Le mécénat artistique des confréries dans la Palerme du Moyen Âge, in Les confréries de Corse. Una société idéale en Méditerranée, catalogo della mostra (Ajaccio, Musée de la Corse, 11 luglio-30 dicembre 2010) a cura di A. Agresti, Ajaccio 2010, pp. 401-409, e in part. pp. 402-404. []
  41. In proposito vedi nota 37. []
  42. Sulle due tavole si veda: V. Abbate, Il palazzo, le collezioni, l’itinerario, in G. C. Argan, V. Abbate, E. Battisti, Palermo. Palazzo Abatellis, Palermo 1991, pp. 14-119, e in part. p. 60; M. C. Di Natale, Capolavori…, 1998, p. 50. []
  43. A riguardo si veda: F. Bologna, Il soffitto della Sala Magna allo Steri di Palermo e la cultura feudale siciliana nell’autunno del Medioevo, 1975, ed. cons. Palermo 2002, pp. 3, 103. []
  44. F. Bologna, Il soffitto…, 1975, ed. 2002, pp. 100-145. []
  45. Sul Maestro napoletano di tradizione giottesca si veda: F. Bologna, Il soffitto…, 1975, ed. 2002, pp. 60, 63, 114-115. A riguardo si veda anche: L. Buttà, Frammenti di cultura napoletana post-giottesca nella Sicilia chiaromontana: tappe di un viaggio, in El Trecento en obres. Art de Catalunya i art d’Europa al segle XIV, a cura di R. Alcoy, Barcellona 2009, pp. 161-183, e in part. pp. 163-171. []
  46. Si vedano i riferimenti bibliografici della nota precedente e della nota 35. []
  47. Sul legame tra gli affreschi di Baida e la cultura giottesca di matrice napoletana si veda: L. Buttà, Frammenti…, 2009, pp. 169-171; L. Buttà, Manfredi Chiaromonte e le arti: committenza artistica e egemonia politica in Sicilia alla fine del Trecento, in L’immagine come messaggio. I significati dell’opera d’arte e la comunicazione iconica, a cura di F. Sciacca, Caltanissetta 2012, pp. 37-55, e in part. pp. 45-51. Sui medesimi affreschi si veda anche: M. G. Paolini, Madonna col Bambino e angeli, I SS. Antonio Abate e Giovanni Battista, in XV Catalogo di opere d’arte restaurate (1986-1990), Palermo 1994, pp. 25-31, e in part. p. 29. []
  48. Sull’aquila di Bonaiuto si veda: A. Salinas, Di una scultura di Bonajuto Pisano nel prospetto del Palazzo Sclafani a Palermo, Palermo 1886, pp. 3-8. []
  49. G. Travagliato, Affreschi tardo gotici nella Sicilia occidentale, in Il Duomo di Erice tra Gotico e Neogotico, atti della giornata di studi (Erice, 16 dicembre 2006) a cura di M. Vitella, Erice 2008, pp. 77-93, e in part. pp. 77, 83-85. []
  50. G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, II, Da Giotto a Leonardo, 1968, ed. cons. Firenze 1988, p. 163; F. Negri Arnoldi, Storia dell’arte, 1968, II, p. 319. []
  51. P. Santucci, La pittura del Quattrocento, Torino 1992, pp. 116-117. []
  52. Si veda in proposito: A. Tartuferi, scheda XIV (Messale di San Piero in Mercato), in Lorenzo Monaco. Dalla tradizione giottesca al Rinascimento, catalogo della mostra (Firenze, Galleria dell’Accademia, 9 maggio-24 settembre 2006) a cura di A. Tartuferi, D. Parenti, Firenze-Milano 2006, p. 304. []
  53. Si veda a riguardo: M. Ferroni, scheda G.16 (Antifonario), in Le arti a Siena nel primo Rinascimento. Da Jacopo della Quercia a Donatello, catalogo della mostra (Siena, Santa Maria della Scala-Opera della Metropolitana-Pinacoteca Nazionale, 26 marzo-11 luglio 2010) a cura di M. Seidel, Milano 2010, p. 548. []