Cristina Del Mare

c.delmare@libero.it

L’eredità trapanese e gli esordi della lavorazione del corallo nel napoletano

DOI: 10.7431/RIV07112013

A compimento della gloriosa stagione barocca trapanese, dalla seconda metà del XVIII secolo lo scenario delle manifatture artistiche in corallo andò modificandosi. Uno dei prodromi che diede avvio all’attività in altri centri marittimi italiani, diversi da quelli trapanesi, fu la migrazione dei maestri corallai di fede ebraica, attivi in Sicilia dal XV secolo, successiva all’editto spagnolo del 1492, che sanciva l’espulsione delle comunità giudee da tutti i territori della corona d’Aragona1.

A Genova, da sempre in concorrenza con Trapani e le città catalane nell’egemonia sui traffici del corallo verso Oriente, arrivarono maestranze siciliane che intrapresero la lavorazione di paternostri2 e, più tardi, di rosari attestati nelle fonti a partire dalla fine del XV secolo, i cui grani avevano semplice forma di grani attondati. Alla volta di Livorno giunsero esuli ebrei sefarditi, ispano – portoghesi espulsi dalla penisola iberica, i quali, dalla fine del 1500 grazie alla Costituzione Livornina3, videro garantite libertà di commercio e intermediazione, funzionali allo sviluppo della nascente città portuale, in linea con l’intento dei granduchi di Toscana. Più tardi, serbando memoria dell’intraprendenza commerciale e finanziaria della comunità ebraica di Livorno, re Carlo di Borbone richiamò i profughi ebrei nel Regno delle Due Sicilie con un editto datato 1740, sperando di incrementare il flusso dei crediti e gli investimenti sui traffici nel porto di Napoli, così come avvenne per il porto toscano. Questi sovrani illuminati intuirono l’esigenza di riformare ed incrementare l’artigianato locale, sostenendo, dalla metà del XVIII in poi, l’avvio di industrie per la lavorazione del corallo.

Ebrei trapanesi approdarono all’estremità del porto angioino di Napoli, stabilendo propri fondaci, altri si stabilirono a San Giorgio a Cremano e a Torre del Greco, in osservanza a regi decreti che stabilivano la residenza giudaica in ghetti propri o in luoghi fuori dalle mura cittadine. Sui proscritti giunti nel Regno di Napoli si hanno prime testimonianze già nel 1477 riferite all’ebreo Hisach, che esportava corallo da Trapani a Lanzano4. Successivamente, con contratto firmato 8 marzo 1482, il giudeo trapanese Aronne Gergentano prese a bottega un confratello, certo Mantoterra, per la mansione di lavorare paternostri dietro compenso di trecento ducati annui per un committente napoletano, inclusivo del salario e delle spese di soggiorno5. Nel 1504 ad Amalfi, Sebastiano Giuliano si associò coll’ebreo trapanese Marco Giovanni Zeza, sempre per la produzione di “pater nostri deli gruossi et piczoli”6. Altri maestri trapanesi dovettero giungere successivamente a Napoli in seguito alla seconda diaspora dei corallari siciliani, avvenuta dopo la carestia e l’insurrezione del 1672, attratti dal gradimento dei napoletani per il loro lavoro e dalla possibilità di sfruttare un mercato più vasto.

A partire dalla seconda metà del XVI secolo fiorisce a Napoli un vero e proprio collezionismo di oggetti in corallo, rintracciabile in numerosi lasciti testamentari, atti dotali e documenti contrattuali di famiglie aristocratiche e negli archivi inventariali dei più importanti ordini religiosi7. In alcuni inventari appartenenti ad ordini ecclesiastici si evince che nei tesori ecclesiali erano conservati diversi manufatti in corallo: dai semplici paternostri e corone donate ai santi protettori, alle composizioni più complesse8. In altri registri della casa d’Aragona stilati nel 1554  dopo la morte di donna Mencia de Mendoza, seconda moglie di Ferdinando d’Aragona, compaiono alcuni pendenti in corallo montati in oro, a fianco di un cammeo con la «testa di Julio Cesare in un tondo di oro filigranato con sua maglietta de oro» e un ciondolo raffigurante «San Michele con lo diavolo ali piedi con sua targa e lanza»9. Sculture a tutto tondo in corallo sono citate nell’inventario del 1622, redatto alla morte di Livia di Somma: «una Madonna piccola di corallo» in un «nicchio» d’oro smaltato ed «un teschio della stessa materia»10 mentre nell’inventario di Antonio Ruffo Principe di Scaletta appaiono, oltre a collane e a catene di corallo, un’Europa in corallo intagliato, una testa di morto e un volto di Cristo sempre in corallo11. Oggetti analoghi sono presenti in due inventari, uno redatto nel 1694 per don Diego Pignatelli e l’altro, datato 1696, per don Marino Caracciolo, dove figurano piccole statue a tutto tondo nelle loro custodie, un volto di santo a ciondolo, montato in argento «cosa per uso di creatura […] una conetta con cornici d’argento, ornata di corallo con nella nicchia la effige della Madonna della Pietà, due carri su basi d’argento e statue di San Michele e di San Giuseppe»12, che potrebbero far supporre ad analogie con i “Trionfi”” trapanesi13.

Tali documenti certificano solo l’esistenza di manufatti in corallo in proprietà di aristocratici napoletani, non tanto la loro produzione in loco. Se è plausibile immaginare una essenziale lavorazione del corallo, filze e paternostri, a fianco dell’attività di pesca da parte delle coralline locali, più complessa si rivela la possibilità di rintracciare lavori compositi di comprovata manifattura napoletana ad eccezione di sparuti casi, come attestato in un documento del 1617 che documenta la presenza in città di un artigiano orafo, Giovan Battista Scarano, il quale realizza una figurina in corallo montata in oro, forse un ciondolo amuleto14; mentre nel 1657 vi è testimonianza di una grossa partita di coralli in cui sono descritti vari tipi di fatture, tra cui manine scaramantiche, piccole croci, anelli, memento mori, che lascerebbero presumere un’evoluzione artistica delle manifatture a Napoli15.

E’ quindi verosimile ipotizzare che le opere composite più elaborate appartenenti alle raccolte nobiliari o ecclesiastiche fossero realizzate in ambito trapanese. A sostegno della tesi sull’importazione di manufatti in corallo da Trapani verso il Regno di Napoli sono gli stretti rapporti commerciali tra i due ambiti territoriali, testimoniati da alcuni contratti come quello stipulato nel 1665 da Antonio Francesco Brusca, che affida la vendita ad un certo Grimaldo, dimorante in Napoli, un crocefisso in corallo su croce di rame dorato guarnita di coralli, mentre nel 1673 il siciliano Nicola Corso riceve denaro per la vendita a Napoli di cinque crocefissi16. In alcuni casi la provenienza siciliana è perfino dichiarata, come nel documento del 1688 che cita gli averi di Ferdinando Vandeneynden, in cui sono menzionate «due pedagne di coralli piccoli con figurine e coralli commessi con argento con foglio di rame indorato, fatte in Sicilia […] due vascelletti di corallo fatti in Sicilia»17, tipologia questa attestata in numerose caravelle di produzione trapanese della fine del XVII secolo18.

Nell’ambito territoriale partenopeo è doveroso fare distinzione tra la lavorazione del corallo e l’attività di pesca. Per quanto riguarda la raccolta del corallo una serie rilevante di fonti e documenti d’archivio, ampiamente riportati negli studi del Balzano, del Mazzei Megale e del Tescione19, dimostrano il progressivo sviluppo dell’attività di pesca a partire dalla metà del XV secolo. Le coralline20 di Torre del Greco gareggiarono con quelle siciliane, liguri, provenzali e catalane per la supremazia della pesca nel Mediterraneo, inizialmente lungo le coste dell’isola di Capri, della Corsica, della Sardegna e della penisola sorrentina, successivamente nei fondali dell’Africa settentrionale. Nel XV secolo la flotta di coralline torresi contava già numerose imbarcazioni, e i feudatari locali tentarono di imporre dazi sulla pesca, sicuri di ottenere lucrose entrate21. Il più eclatante di queste prevaricazioni venne operata da Antonio Carafa che nel 1500 cercò di imporre una gabella sul corallo in arrivo al porto di Torre del Greco. La ribellione dei pescatori, che si appellarono al Tribunale, vide esito positivo solo nel 1525, tuttavia il provvedimento dissuase altri tentativi da parte dei baroni di porre dazi sul corallo pescato22.

Agli inizi del ‘600 le maestranze coinvolte nella pesca del corallo e l’entità del pescato avevano raggiunto dimensioni ragguardevoli, tanto che i marinai torresi decisero di associarsi in una congregazione che trovò la sua prima sede nella chiesa di Santa Croce23. All’associazione, che può essere ritenuta la prima cassa di mutuo soccorso per i marinai, venne affidata la ventesima parte del guadagno di una barca24, garantendo alle famiglie dei confratelli un sostegno economico in caso di calamità e malattie, assumendosi i costi delle esequie e delle doti delle figlie dei confratelli più indigenti. Nel 1669 la confraternita devozionale, che aveva raggiunto una solidità economica, prese l’appellativo di “Monte Pio dei Marinai e Pescatori”, con rinnovate finalità di reciproca assistenza e mutuo soccorso tra i soci, istituzione che manterrà la sua finalità assistenziale fino al secondo dopoguerra25.

Fino a tutto il XVIII secolo il corallo grezzo pescato dai torresi veniva inviato in prevalenza a Livorno da dove, lavorato, era inoltrato verso i mercati occidentali ed orientali. Nel ‘700 Livorno grazie ai mercanti ebrei, come si è accennato innanzi, divenne il maggior centro di raccolta e di scambio, oltre che di lavorazione “mercantile” del corallo. Per contrastare il monopolio commerciale di Livorno e Genova si fece strada l’idea di intraprendere una lavorazione sistematica del corallo grezzo proprio a Torre del Greco. L’esigenza, già avvertita nella seconda metà del Settecento, si inserì nell’ambito di quel vasto programma dei Borbone orientato allo sviluppo dell’artigianato locale26.

Inizialmente tale urgenza si espresse in una disposizione del 1787 che ridusse drasticamente l’imposta sul corallo grezzo importato, stimolando la vendita del materiale a Napoli. Due anni dopo si giunse alla redazione del “Codice Corallino e dello Statuto della Compagnia”27, nel quale si sosteneva la necessità di non vendere più il greggio a Livorno, dove «quei negozianti ebrei si arricchiscono alle spalle dei pescatori torresi»28, come scriveva il giurista Michele De Iorio, autore con altri del Codice e dello Statuto, proponendo di istituire una fiera nel Regno e di avviare fabbriche per la lavorazione «di una si ricca produzione del mare»29.

Il Codice, entrato in vigore nell’aprile del 1790 con il favore di Ferdinando IV, si proponeva di riordinare giuridicamente il settore in particolar modo a Torre del Greco, stabilendo nei diversi Titoli le regole e gli impegni a cui dovevano attenersi Marinari e Pescatori, ma anche Capisquadra e Padroni, nella costituzione di Conserve, società di pesca formate da feluche. L’arbitrato delle controversie era affidato a cinque Consoli, eletti ogni due anni tra i capisquadra e padroni, con il compito di rilasciare anche la patente per l’esercizio dell’attività. I caposquadra, con almeno dieci anni d’esperienza di mestiere, erano responsabili delle loro Conserve, della custodia del corallo pescato, della vendita del prodotto con il consenso dei padroni. Il prezzo di vendita era stabilito dai Consoli in base alla qualità del prodotto, al numero presunto dei compratori e alla quantità disponibile. Per dissuadere le violazioni era prevista una pena di 200 ducati. Nessuno dei diciassette Titoli del Codice tuttavia fa cenno alla lavorazione del corallo nel Regno, in quanto Ferdinando IV di Borbone aveva in animo di dare vita alla cosiddetta “Compagnia del Corallo”, che entrò in vigore solo sei mesi dopo la promulgazione del Codice, con l’intento di avviare una fabbrica a Torre del Greco, richiamando da ogni dove «quelle persone più proprie al lavoro di una mercanzia così preziosa»30. Entrambi questi provvedimenti non ebbero l’esito auspicato, sia in ragione della situazione politica internazionale, scaturita dagli eventi della rivoluzione francese, sia dell’antagonismo tra francesi e inglesi sul controllo dei traffici marittimi mediterranei e, non ultima, a causa dell’eruzione del Vesuvio che, nel 1794, rallentò i progetti Borbonici.

Fu il marsigliese Paul Barthèlemy Martin, stimato mercante e direttore della Reale Compagnia d’Africa31, a saper cogliere intelligentemente le condizioni favorevoli di quelle circostanze: il decadimento delle manifatture a Marsilia e Genova, il grande potenziale di pesca dei torresi, la volontà borbonica di agevolare l’impresa nel settore corallino e il progressivo diffondersi della moda del corallo in Europa. L’8 aprile del 1805 il Martin ottenne da Ferdinando IV una privativa decennale (Fig. 1), per avviare la prima fabbrica di lavorazione del corallo a Torre del Greco, esente da ogni dazio doganale per «l’esportazione di coralli lavorati» e « il commercio interno al Regno»32. Al marsigliese venne prescritto di formare giovani apprendisti perché questi fossero in grado di «estendere in Torre del Greco […] l’arte del corallo», una volta conclusa la privativa del Martin.

Il buon risultato conseguito già nel primo anno di attività spinse il nuovo sovrano francese, Giuseppe Napoleone I, a confermare l’esclusiva, rinnovata poi da Gioacchino Murat33, in cui si assicurava il diritto di produrre e vendere in tutto il Regno. Nel contempo si vietava a chiunque di contraffare la produzione della Real Fabbrica di Coralli della Torre del Greco, come fu nominata la fabbrica del Martin. L’esercizio di questa manifattura, operante fino al 1807 con un centinaio di lavoranti solo a Torre del Greco in Palazzo Brancaccio34, e più tardi anche nell’opificio al Real Albergo dei Poveri di Napoli35, ebbe il merito di formare artisti quali Squadrilli e Piscione36 che avranno ruolo significativo per il prosieguo dell’oreficeria napoletana in corallo nel corso del secolo XIX.

L’attività dell’opificio nel primo decennio del secolo è ampiamente testimoniata dai documenti riguardanti le privative industriali37, e negli attestati di partecipazione a mostre nazionali nel primo quarto dell’80038, riservate a quei produttori garanti dell’esclusiva invenzione dei manufatti presentati. La Real Fabbrica di Coralli vinse la medaglia d’argento all’Esposizione dei Saggi delle Manifatture Nazionali del 1810 per la perfezione tecnica dei pezzi esposti39, mentre l’anno successivo alla stessa mostra ottenne la medaglia d’oro40. Nel 1813 presentò l’intera produzione in un proprio padiglione41.

Le creazioni del Martin non si limitarono alla lavorazione “mercantile” di granuli, olivette o sfere, ma si estesero all’incisione di sculturine e soprattutto cammei, destinati prevalentemente a gioielli in linea con la moda dell’Impero, abilmente intagliati nel gusto neoclassico da maestri incisori richiamati da Roma, il Pansinetti e il Gagliardi, ai quali si aggiunsero poco dopo il Veneziani, il Mangiarotti, il Carbone, il Persichini e il Fattori42. Ben presto alcuni di loro appellandosi alle normative sulle arti liberali, si staccarono dall’impresa del Martin, per iniziare una propria attività43.  Nei primi decenni del secolo, l’attività della Real Fabbrica attirò l’attenzione di gioiellieri di altri stati europei quali il Claire, gioielliere di casa Savoia, che cercò invano di convincere il sovrano ad avviare una manifattura simile nell’isola di Sardegna, assai pescosa di corallo44.

L’attività del Martin nel napoletano trovò collaborazione in Filippo Rega, il direttore dell’Opificio di Pietre Dure, che tra il 1809 e il 1811 fece eseguire un guéridon (Fig. 2) oggi conservato al Musée National du Château de Fontainebleau, con il piano a scacchiera in commesso di pietre dure e legno pietrificato45. L’esistenza del monogramma “N” al centro del fusto portante, induce a supporre che l’oggetto avesse destinazione imperiale46. L’opera è assimilabile ad uno dei quattro esemplari che vennero commissionati tra il 1809 e il 1811 al Real Laboratorio delle Pietre Dure di Napoli da Gioachino Murat, come probabile dono al cognato Imperatore. Il prezioso tavolino da gioco riporta sull’intero basamento e lungo il fusto, rastremato verso il piano, una raffinata ornamentazione neoclassica di girali, baccelli e fogliette realizzate con applicazioni d’elementi di corallo mediterraneo inseriti nella lamina traforata del bronzo dorato. La tecnica di fissaggio degli elementi in corallo non è “a retroincastro”, tipica delle manifatture barocche trapanesi, bensì è una procedura che utilizza gli spazi nella lamina come castoni entro cui i coralli sono cuciti a minuti supporti in legno sotto l’incastro47.

Nella fascia sottostante il piano, sono posti sedici medaglioni in corallo inciso, delimitate da una doppia cornice di grani faccettati, attribuibili propriamente all’opificio del Martin, in ragione del fatto che il laboratorio era l’unico a Napoli a realizzare incisioni in corallo in quegli anni48 e in preciso riferimento ad una nota di 1500 ducati che venne autorizzata in pagamento al Martin per una delle due scacchiere realizzate tra il 1809 e il 1811 per il Re di Napoli49.

I sedici cammei in corallo, disposti nell’ordine di cinque sui lati lunghi e tre sui lati corti, sono retti da castoni in lamina dorata, decorati da foglie d’acanto. Al centro di ogni serie sono quattro placchette rettangolari raffiguranti scene mitologiche. Nella prima una Venere nuda in ambiente marino è affiancata da due creature con la testa di delfino, insieme ad una sirena che afferra un serpente e un tritone dalle sinuose turgide spire (Fig. 3). Nella seconda placchetta è una scena dionisiaca in cui predomina un sileno, mollemente disteso mentre mangia un grappolo d’uva sotto lo sguardo di un amorino, reggente una coppa e un tirso dionisiaco (Fig. 4). Nella terza placchetta una figura virile inarcata all’indietro è sorretta da un amorino alato, mentre un altro amorino suona una cetra (Fig. 5). Nell’ultima placchetta è ritratta una figura maschile mentre regge una maschera tragica affiancata da un amorino, suonante un corno (Fig. 6). Gli ulteriori dodici cammei, di forma ovale, riportano profili femminili  dalle acconciature tipiche del mondo greco (Figg. 78), profili maschili (Figg. 910) ispirati al repertorio neoclassico diffuso a partire dalla metà del XVIII secolo, in cui si avvertono richiami all’iconografia delle pitture e dei mosaici pompeiani, come per la testa di Medusa (Fig. 11) o per la maschera di un sileno (Fig. 12).

Alla scacchiera si aggiunse un altro dono di Maria Carolina Bonaparte al fratello: dieci cammei in corallo, riconducibili alle manifatture della Reale Fabbrica del Martin, che andarono ad ornare una magnifica spada di gala, realizzata dall’armaiolo francese Biennais50 (Fig. 13), oggi anch’essa conservata al Musée National du Château de Fontainebleau. Il modello dell’arma, quanto i motivi decorativi, ricalcano le fogge delle spade di gala e degli spadini realizzati per l’Imperatore Napoleone I. Il pomo, l’impugnatura, la guardia, la coccia e il puntale sono finemente cesellati in oro e riproducono un gufo sul pomo e un medaglione con testa d’ariete sull’impugnatura, dove generalmente, in spade di questa tipologia, si trova una testa di leone. Opera dell’armaiolo francese Martin Guillaume Biennais reca, sul verso dell’impugnatura, il punzone in uso dal 1798 al 1809 e l’iscrizione: BIENNAIS ORF.RE DE S.MTE’ L’EMPERATEUR ET ROI / A PARIS (Fig. 14).

I dieci cammei in corallo che ne decorano l’elsa sono ascrivibili alle manifatture della Reale Fabbrica di Paul Barthèlemy Martin sulla base di confronti stilistici con altre opere del periodo napoleonico prodotte dal Martin nell’opificio di Torre del Greco. In particolare questi cammei sono assimilabili a quelli realizzati per il guéridon descritto pocanzi. Probabile dono della sorella Carolina e di Gioachino Murat a Napoleone, i dieci cammei incastonati nell’elsa raffigurano soggetti antichi e mitologici, altresì ritraggono alcuni membri della famiglia imperiale (Figg. 15 a e 15 b). Due dei tre cammei sulla coccia rappresentano due teste virili: sulla destra un profilo di divinità guerriera, presumibilmente Marte, che reca sul capo un elmo di foggia romana. All’estremità opposta una testa di guerriero con la spalla destra in primo piano coperta da un clipeus romano ornato da una testa di leone. Al centro della coccia è un profilo femminile di tre quarti, che ricalca i lineamenti di Carolina Bonaparte (Fig. 16) adorna di un vezzo girocollo e di orecchini ad anfora di ispirazione ellenistica e cinta da un elmo alla greca da cui fluiscono i capelli a grandi ricci, con esplicito richiamo ad una figura del pantheon greco.

Al centro dell’impugnatura è raffigurato il profilo sinistro di una testa muliebre, che ritrae le sembianze di Letizia Ramolino Bonaparte, madre di Napoleone, ritratta in una tunica fermata da fibula e acconciata con un diadema spartano, che svela i capelli raccolti sulla sommità del capo e i riccioli cadenti sulla fronte (Fig. 17). Altri cammei con teste femminili in profili di maniera adornano la parte alta del fodero, del guardamano e del pomo. Su quest’ultimo, in posizione laterale sporgente, è un cammeo riproducente una testa muliebre con berretto di Frigia, allegoria della Francia e simbolo di libertà (Fig. 18). Sempre sul guardamano, il piccolo castone centrale riproduce due mani che si stringono, emblema del legame familiare e di amicizia, che si ritrova in numerosi esempi di glittica classica. Lo strano posizionamento delle mani incrociate, farebbe pensare che questo cammeo sia stato montato capovolto rispetto all’asse dell’osservatore (Fig. 19).

Il punzone della manifattura Biennais, utilizzato non oltre il 1809, congiuntamente all’anno di incoronazione di Gioachino Murat a Re di Napoli (1808), permettono di fissare una datazione sicura della realizzazione dei cammei in corallo, data che coincide con la produzione del guéridon imperiale. Si può affermare verosimilmente quindi che la serie di cammei per la spada e il tavolino siano stati realizzati in periodo coevo, ipotesi sostenuta altresì dal raffronto stilistico, evidenziato della rappresentazione dei profili che vanno ad occupare l’intera superficie del cammeo, lasciando minimo spazio a elementi decorativi sullo sfondo.

L’entusiastica ammirazione di Carolina Bonaparte Murat, Regina di Napoli e delle due Sicilie, per le manifatture in corallo napoletane, contagiò la corte napoleonica francese che, dall’inizio dell’Ottocento, influenzò altresì la moda del gioiello “da giorno” dei ceti emergenti in tutta Europa. Il materiale cinabro divenne di gran moda in forma di cammeo o perla ad ornare parure, diademi e pettini, liscio e sfaccettato in lunghe collane e pendenti orecchini, perfetti per i nuovi canoni della moda “stile Impero”, che trovava ispirazione nei modelli della classicità.

Tra gli esemplari di gioielli sopravvissuti sono un pettine e un diadema in argento dorato e corallo, appartenuti a Letizia Murat, secondogenita di Carolina, oggi conservati al Museo Napoleonico di Roma (Figg. 20a e 20b). Qui la decorazione alterna piccole volute, reggenti una doppia serie di coralli rosa di dimensione diversa, incorniciate da cerchi dorati e frammezzati da cannetille, fine lavorazione a filigrana ritorta, frequente nei gioielli d’inizio ‘800. Per stile decorativo e manifattura il pettine e il diadema possono essere ascritti al primo decennio dell’Impero, periodo in cui l’apprezzamento della corte napoleonica per i gioielli “da giorno” in corallo è palese in alcuni ritratti di corte, di Carolina Bonaparte Murat51, di Zenaide e Carlotta Bonaparte, figlie di Giuseppe, realizzato da David nel 182152, di Josephine Beauharnais Bonaparte53.

Presso lo Chateaux de Malmaison et Bois Préau a Rueil Malmaison è conservata una parure (Fig. 21) appartenuta alla Regina Ortensia54, composta da un bracciale realizzato in oro, articolato in sette segmenti, quattro dei quali costituiti da cammei circolari in corallo mediterraneo contornati da un giro di piccole perle. I cammei che trovano eco nei quattro spilloni che completano la parure, sono scolpiti con profili neoclassici che riportano inevitabilmente sia ai cammei inseriti nel guéridon, sia a quelli nella spada di gala di proprietà imperiale di produzione Martin.

Monili in corallo mediterraneo, l’unico ad essere lavorato in quegli anni, compaiono sovente anche nelle celebri riviste di moda55 a corredo di mise sofisticate o popolari56. Il corallo si presentava liscio e sfaccettato in vezzi giro collo57, in sautoir avvolti in più giri, in lunghi orecchini pendenti o in preziosi diademi e pettini a completamento delle acconciature che volevano la nuca scoperta. Un recupero dell’antico, apparso già durante il Direttorio e il Consolato che, pur allontanandosi dai materiali utilizzati nell’antichità, ne riprendeva forme e funzioni. Basti pensare ai diademi, che furono modellati in fogge di ispirazione greca o ad intreccio di foglie e bacche affiancati a cammei incisi, chiaro richiamo alla glittica classica. La prima arte incisoria del corallo nel napoletano si ispirò infatti a modelli e temi neoclassici ampiamente condivisi dalla scuola di glittica romana, da cui il Martin aveva richiamato i primi incisori che collaborarono con lui. La tecnica incisoria permetteva di sfruttare appieno il materiale grezzo di scarto, la base del cormo piena di imperfezioni, il cosiddetto “pedicino”, non utilizzabile per la produzione di pallini e più adatto a lavorazioni scolpite, come appunto i cammei incisi, reinterpretati attraverso un’innovativa combinazione cromatica di rosso e oro, in cui il corallo ebbe ruolo centrale. La tecnica di intaglio echeggiava ancora una volta l’eredità trapanese, che diede il meglio nel modellato artistico.

  1. C. Del Mare, M. C. Di Natale, Mirabilia Coralii. Capolavori barocchi in corallo tra maestranze ebraiche e trapanesi, Catalogo della mostra a cura di C. del Mare, Napoli 2009, pp. 25-31. []
  2. G. Tescione, Il corallo nella storia e nell’arte, Napoli 1965, pp. 204-208; 217-218; 234-241; 290-360. []
  3. L’insieme di provvedimenti legislativi emanati dal 1586 fino alla pubblicazione della Costituzione Livornina del giugno 1593, ebbero come primario intento quello di incentivare la crescita demografica e commerciale di Pisa e Livorno, attirando rappresentanti di comunità straniere, senza discriminazione di razza o religione, garantendo una serie di privilegi e immunità a chiunque decidesse di stabilirsi e iniziare attività nelle due città toscane. Si garantivano libertà di professione religiosa, politica e professionale, oltre alla cancellazione dei debiti contratti con stranieri, esenzione di alcuni tributi, l’annullamento di condanne penali (ad eccezione dell’eresia e di spaccio di “falsa moneta”) per un periodo di 25 anni, istituendo un regime doganale a vantaggio delle merci in esportazione e stabilimenti adatti alle diverse professioni. Tale impianto legislativo nel tempo conferì a Livorno le caratteristiche di “porto franco”, di una città cosmopolita, multirazziale e multiconfessionale, favorendo la costituzione in città di numerose, comunità straniere presiedute da propri rettori. []
  4. G. Tescione, Il corallo nella storia…, 1965, p.318. []
  5. A. Daneu, L’arte trapanese del corallo, Palermo 1964, p. 45; G. Filangeri di Striano, Documenti per la storia, le arti, e li industrie delle province napoletane, Napoli 1981, IV,pp.344-345. []
  6. ASN – Notaio Antonino de Campulo, 27 agosto 1505, II ind. []
  7. G.C. Ascione, Storia del corallo a Napoli dal XVI al XIX secolo, Napoli 1991, pp. 64-69; A. Putaturo Murano, A. Perriccioli Saggese, L’arte del corallo. Manifatture di Napoli e Torre del Greco tra ‘800 e ‘900, Napoli 1989, pp. 21 -24. []
  8. Ibidem. []
  9. G.M. March: Alcuni inventari di Casa d’Aragona compilati in Ferrara nel secolo XVI, in Archivio storico delle province napoletane”, LX, 1936, p. 302, 313. []
  10. G.C. Ascione, Coralli, in Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra, Napoli 1984, Vol. II, p. 336. []
  11. Ibidem. []
  12. Ibidem. []
  13. Simili opere dovevano essere il Trionfo con San Michele di collezione privata di Catania della fine del XVII secolo di maestranze trapanesi e palermitane su disegno di Giacomo Amato ( cfr. M.C. Di Natale, Oro, argento e corallo tra committenza ecclesiastica e devozione laica e R. Vadalà, scheda n. 43, in Splendori di Sicilia. Arti decorative dal Rinascimento al Barocco, catalogo della mostra a cura di M.C. Di Natale, Milano 2001) e il Trionfo con San Giuseppe di collezione privata di Palermo pure di maestranza  trapanese (cfr. M.C. Di Natale, scheda 159, in L’arte del corallo in Sicilia, catalogo della mostra a cura di C. Maltese e M.C. Di Natale, Palermo 1986, pp.348-349; S. Terzo scheda 53, in Splendori di Sicilia…, 2001, p.508; R. Vadalà, scheda 74, in I grandi capolavori del corallo, Milano 2013, p.143. I coralli di Trapani del XVII e XVIII secolo, catalogo della mostra (Catania, Palazzo Valle, Fondazione Puglisi Cosentino 3 marzo – 5 maggio 2013; Trapani, Museo Interdisciplinare Regionale “Agostino Pepoli” 18 maggio – 30 giugno 2013) a cura di V.P. Li Vigni, M.C. Di Natale, V. Abbate, Milano 2013, p.151.). Si veda anche R. F. Margiotta, La ricerca di archivio. Note documentarie sulla produzione siciliana di manufatti in corallo, in Sicilia Ritrovata. Arti decorative dei Musei Vaticani e della Santa Casa di Loreto, catalogo della mostra (Monreale, Museo Diocesano 7 giugno – 7 settembre 2012) a cura di M.C. Di Natale, G. Cornini, e U. Utro, Quaderni “Museo Diocesano di Monreale”, n.2, Palermo 2012, p.173; S. Terzo, scheda 80, in I grandi capolavori del corallo…2013. []
  14. Nel 1617 Giovanni Battista Scarano viene pagato con la somma di dodici ducati da Don Astorge Agnese «per oro e fattura di una figura in Corallo, che detto Giovan Battista ha fatta e consegnata» (cfr. G.C. Ascione, La Storia del…, 1991, p. 52). []
  15. Idem, p. 53. []
  16. M. Serraino, Trapani nella vita civile e religiosa, Trapani 1968, pp. 111-112; e G.C. Ascione, Storia del…, 1991, p. 49. []
  17. G.C. Ascione, Coralli …, 1984, p. 337. []
  18. cfr. M.C. Di Natale, scheda 78, in I grandi capolavori…, 2013, p.148, che riporta precedente bibliografia []
  19. P. Balzano, Del corallo, della sua pesca e della sua industria nelle Due Sicilie, in “Annali delle Due Sicilie”, marzo-aprile 1838; P. Balzano, Il corallo e la sua pesca, Trattato sui coralli. Napoli 1870; G. Mazzei Megale, L’industria del corallo a Torre del Greco, Napoli 1880; G. Tescione, L’industria del corallo nel regno di Napoli dal secolo XII al secolo XVII, Napoli 1938. []
  20. Le coralline erano grandi barche a vela latina, del tipo gozzi o tartane, utilizzate per la pesca del corallo, che potevano imbarcare dai 7 ai 16 uomini di equipaggio. Ogni corallina era dotata di uno o due “ordigni” o “ingegni” , un meccanismo usato tradizionalmente anche presso altre comunità di pescatori operanti nel Mediterraneo, consistente in una croce di legno a bracci di eguale lunghezza, appesantita da grossi massi, a cui erano agganciate delle reti. L’ingegno veniva calato per mezzo di lunghe funi di canapa, regolate da un argano, verso i fondali marini, ad una profondità variabile tra le 50 e le 100 braccia. Le reti, attraverso il movimento combinato di barca e argano, erano posizionate per strappare più corallo possibile dal fondale, ed un’analoga manovra era poi necessaria per liberarle. L’attività di pesca si praticava nel periodo primaverile – estivo, indicativamente tra marzo e ottobre di ogni anno. []
  21. G. Tescione, L’Industria . 1938, pp. XIV – XV; A. Gruvel, Le poche dans la préhistoire, dans l’antiquité et chez les peuples primitifs, Parigi 1928, p. 56. []
  22. V. Di Donna, Il riscatto baronale della città di Torre del Greco e sua comarca. Episodio storico del sec. XVIII; Napoli 1914, pp. 7 – 8; G. e F. Castaldi, Storia di Torre del Greco, con prefazione di Raffaele Alfonso Ricciardi, Torre del Greco 1890, pp. 177 e sgg. []
  23. ASN, Cappellano Maggiore, Statuti e Congregazioni, fs.1183 ex 3, inc.57, anno 1615. Successivamente la sede della congregazione venne trasferita da Santa Croce alla chiesa di Santa Maria delle Grazie dei Padri Minori Osservanti, per essere ulteriormente dislocata presso la sede autonoma della chiesa di S. Maria di Costantinopoli, eretta dagli stessi congregati all’inizio del Settecento. []
  24. Per le stime sull’ammontare delle somme versate al Monte cf.  F. Balletta, La ricchezza di Torre del Greco dalla fine del Seicento ai primi decenni dell’Ottocento in “Rivista di Storia Finanziaria”, n. 11, luglio – dicembre 2003, pp. 27.  “Poiché si presuppone che, per ciascun viaggio, il proprietario della feluca, nel ‘600, guadagnava in media 250-300 ducati, il versamento al Monte si aggirava intorno a 12-15 ducati, che, per 58 soci iniziali, si trattava di un incasso annuo di 700-900 ducati […] La somma di 250-300 ducati si deduce sottraendo dal ricavato della vendita del corallo pescato le spese sostenute. Così da una polizza emessa, nel 1672, da un certo Matteo Vernosa dello Spirito Santo si rileva che aveva comprato, dal proprietario di una feluca, Carlo Antonio Pappalardo, il ricavato della pesca per 632 ducati (Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco dello Spirito Santo, polizza dell’8 aprile 1672). Tenuto conto che le spese per allestire un viaggio per la pesca nel Mediterraneo, compreso il compenso ai marinai, si aggirava intorno ai 300 ducati, il ricavato, circa 600 ducati, meno le spese, facendo una previsione cautelativa, si aveva una cifra di utili di 250-300 ducati”. []
  25. Per approfondimenti sulle tematiche di formazione e evoluzione del Monte Pio dei Marinai e Pescatori vedere V. Ferrandino, Il Monte Pio dei Marinai e Pescatori di Torre del Greco, Tre secoli di attività al servizio dei “corallari” (secc. XVII-XX), Roma 2008. []
  26. Il sostegno di Carlo di Borbone, volto a valorizzare l’industria e le risorse locali, a favore delle fabbriche e manifatture napoletane come le porcellane di Capodimonte, le seterie di San Leucio, la Real Fabbrica di arazzi, si indirizzò anche verso l’artigianato orafo con la fondazione nel 1737 del “Laboratorio delle pietre dure”, cui seguirà per volontà di Ferdinando I la “Scuola di incisione” su cammei. La scuola, pur allineandosi nelle prime produzioni agli stili dell’Opificio fiorentino delle pietre dure, da cui proveniva il maestro Ghinghi trasferitosi al laboratorio di Napoli, segnò la traccia che diede avvio alla produzione di glittica in corallo nel secolo successivo. []
  27. P. Balzano, Il corallo e la sua pesca…, 1870, pp 111-149; L.A. Senegallia, Sul codice corallino di Torre del Greco sulla Reale Compagnia del corallo, Napoli, 1936; G. Tescione, il corallo nella ,,, 1965, che in appendice pubblica l’intero Codice Corallino; E. Tartamella, Corallo. Storia e arte dal XV al XIX secolo, Palermo 2004, pp. 171-186. []
  28. M. De Iorio, Memorie per la nuova Compagnia del corallo, Napoli 1788, p. 23. []
  29. Ibidem. []
  30. L. A. Senegallia, Sul Codice corallino…, 1936, p. 9. []
  31. G. Tescione, Italiani alla pesca del corallo ed egemonie marittime nel mediterraneo saggio di una storia della pesca del corallo con speciale riferimento all’Italia meridionale, in Regia Deputazione napoletana di storia patria. Storia delle arti e delle industrie meridionali, Napoli 1940, p. 220, nota 1. Il Martin era presente a Marsiglia, come ricorda il Tescione tra il 1767 e il 1776, conosciuto come mercante di grande stima e direttore della Reale Compagnia d’Africa. La sua esperienza nel commercio di corallo lo portò, vista la decadenza delle manifatture della sua città, a trasferirsi in un luogo dove più facile sarebbe stato il reperimento del pescato. []
  32. ASNA, Ministero dell’Interno, Inv. I, Fascio 2252, fasc.lo 3, 8 aprile 1805. []
  33. Nel marzo del 1810 Gioacchino Murat, nominato Re di Napoli da Napoleone Bonaparte nel 1808, conferma il decreto sulla privativa industriale concesso al Martin e, con una “patente d’introduzione”, la  rinnova per altri cinque anni. []
  34. La prima fabbrica del Martin trova sede nel cinquecentesco palazzo Brancaccio del Marchese Caracciolo di Castellucci, a Torre del Greco (cfr. V. Jori, Le torri in Italia e i cinquantasei paesi, Torri in particolare Torre del Greco antica e moderna, Napoli 1894, p. 175). Danneggiato nel corso della Seconda Guerra Mondiale, venne in seguito demolito. []
  35. C. Ascione, La real Fabbrica dei Coralli della Torre del Greco, Napoli 2000, dove si dà ampia documentazione d’archivio sulla fondazione e produzione delle fabbriche di corallo fondate dal Martin. Per l’opificio sito nell’Albergo dei Poveri cf. Archivio dell’Albergo dei Poveri, Reg. del 1807- 1809, del 16 dicembre 1807; ASNA, Ministero dell’Interno, inv. I, Fascio 1888. []
  36. V. Jori, Le torri in Italia….1894, p. 176. []
  37. Documento IV, ASNA, Ministero dell’Interno, Inv. II, Fascio 5067, fasc.lo 1, 27 marzo 1805; Documento V, ASNA, Ministero dell’Interno, Inv. I, Fascio 2252, fasc.lo 3, 8 aprile 1805 riguardanti il Dispaccio Reale e la Privativa di Ferdinando IV in cui si concede al Martin la privativa per dieci anni per l’apertura di una fabbrica di coralli a Torre del Greco. Documento VII, ASNA, Ministero dell’Interno, Inv. I, Fascio 2252, fasc.lo 3, 12 luglio 1806 dove Napoleone I conferma la privativa concessa da Ferdinando IV. []
  38. Documento VIII, ASNA, Ministero dell’Interno, Inv. I, Appendice II, Fascio 309, fasc.lo 3: Notamento dei prodotti esposti nella Solenne Esposizione del 1809; Documento IX, ASNA, Ministero dell’Interno, Inv. I, Appendice II, Fascio 309, fasc.lo 4: comunicazione in merito alla Solenne Esposizione del 1810; Documento XX, ASNA, Ministero dell’Interno, Inv. I, Appendice II, Fascio 2247, fasc.lo 5: relazione a Re Ferdinando IV sui manifatturieri premiati nell’Esposizione del 1818. []
  39. Catalogo dei saggi de’ Prodotti dell’Industria Nazionale presentati alla solenne Esposizione de ’22 agosto 1813, Napoli. p.1. []
  40. Idem, p. 2. []
  41. Idem, p. 17. []
  42. A. Putaturo Murano, A. Perriccioli Saggese, L’arte del corallo ...,1989, p.34. []
  43. G. Tescione, Italiani alla pesca del corallo…, Napoli 1940, p. 221. Vincenzo Jori riporta una disamina degli avvenimenti tra il Martin e i lavoranti romani: «[Martin] recossi a Roma, di là condusse seco tre maestri incisori: Michele Mancerotti, Filippo Veneziani e Giuseppe Carbone […]. Introducendo il Martin un’arte nuova chiese ed ottenne la privativa. Infermò il Mancerotti tanto da essere obbligato al ritorno dell’aria natia. Rimasero gli altri due al lavoro per alcuni anni: ma venuti a questione col Martin abbandonarono la fabbrica […] Impiantarono una lite dimostrando che sulle Belle Arti non ci può essere privativa di sorta […] ottenendo in loro favore la sentenza […] Mancerotti parlò a Roma con amici delle faccende coralline di Torre: tra quelli era Filippo Gagliardi, giovanotto incisore, che pensò trasferirsi a Torre, ove lavorò con Veneziani e Carbone” (cfr. V. Jori, Le torri in Italia…, 1894, p. 175 citato in A. Putaturo Murano, A. Perriccioli Saggese, L’arte del corallo ...,1989, p.36). []
  44. G. Tescione, Italiani alla pesca del corallo…, Napoli 1940, p. 222, nota 2. []
  45. A. Gonzàlez Palacios, Mosaici e pietre dure, Milano 1982,  pp. 51- 64 e pp.70-71;  A. Putaturo Murano, A. Perriccioli Saggese, L’arte del corallo ...,1989, p. 38; C. Ascione, La real Fabbrica…, 2000, pp. 72-75. []
  46. A. Gonzàlez Palacios, Mosaici e …, 1982,  p. 52. []
  47. C. Ascione, La real Fabbrica…, 2000, p. 73. []
  48. A. Putaturo Murano, A. Perriccioli Saggese, L’arte del corallo ...,1989, p. 38. []
  49. ASNA Ministero dell’Interno, Inv.II, Fascio 5062 riportato in C. Ascione, La real Fabbrica…, 2000, pp. 62, 72- 73. []
  50. Idem, pp.96- 103; C. Del Mare, Mirabilia Coralii. Manifatture in corallo a Genova, Livorno e Napoli, tra il Seicento e L’Ottocento. Napoli 2011, pp.45, 84-89; J. P. Samoyault, Fontainebleau, Musée Napoléon I: dix ans d’acquisitions, in “Revue du Louvre”, 1996, n. 2, pp. 53-54. []
  51. E’ noto il ritratto di Carolina Bonaparte Murat, Regina di Napoli, nella miniatura in porcellana oggi al Musèe Carnevalet di Parigi. []
  52. J. L. David, Zenaide e Carolina Bonaparte, 1821.  Roma, Museo Napoleonico. []
  53. Firmin Massot (1766 – 1849), Ritratto dell’Imperatrice Josephine con parure di corallo. 1812 circa. Chateaux de Malmaison et Bois Préau a Rueil Malmaison. MM 2003.15.I []
  54. Hortense Eugénie Cécile Bonaparte, nata de Beauharnais (Parigi, 10 aprile 1783, – Salenstein, 5 ottobre 1837), regina consorte d’Olanda, era figliastra dell’imperatore Napoleone I, essendo figlia della sua prima moglie Giuseppina di Beauharnais. Più tardi divenne consorte del primo fratello, Luigi Bonaparte, re d’Olanda e madre di Napoleone III, futuro Imperatore dei Francesi. []
  55. La rivista Costumes Parisiens, che ebbe grande circolazione nel periodo napoleonico, riporta numerosi figurini completati da monili in corallo. []
  56. La rivalutazione del corallo da parte dei ceti nobiliari e borghesi trovava ulteriore sostegno dalla stima che le classi popolari avevano sempre avuto nei confronti del materiale corallino, per le sue presunte qualità apotropaiche. []
  57. Un sottile filo di corallo stretto al collo assunse nell’epoca napoleonica la funzione scaramantica di richiamare alla memoria il taglio della ghigliottina. []