Sophie Bonetti

sophiebonetti@virgilio.it

Tra San Mauro Castelverde (Sicilia), Milano e New York: confronto tra oreficerie milanesi di fine ‘400 sulle orme di Maria Accascina e riflessioni sul restauro

DOI: 10.7431/RIV06022012

A distanza di anni da quando ho avuto occasione di esaminare un’opera ora al Metropolitan Museum di New York, per circostanze fortuite e fortunate ho avuto  modo di metterla a confronto con altri due manufatti unici nel loro genere, di cui uno inedito1 (Fig. 1). Il mio precedente studio aveva avuto come oggetto l’analisi di ventuno manufatti di oreficeria sacra italiana di pertinenza del museo americano, la maggior parte dei quali sconosciuti alla critica o poco studiati, e non esposti, che era stato possibile schedare accuratamente. Inoltre era stato possibile compiere parallelamente un lavoro di ricerca sulle modalità di formazione di una importante collezione secondo criteri e gusti tipici della mentalità americana dell’inizio del XX secolo, periodo a cui risale la nascita del Metropolitan Museum of Art. In concomitanza con la mia ricerca, nel 1997, era stata inaugurata presso il museo una nuova sala espositiva dedicata al Quattrocento italiano, per valorizzare maggiormente le importanti opere di scultura ed arti decorative rinascimentali, fino a quel momento dislocate, secondo l’originario criterio espositivo del museo, cronologico e non topografico, in varie sale assieme ad opere di altri paesi. Il progetto di allestimento della nuova galleria ruotava attorno alla recente e prestigiosa acquisizione dello Studiolo di Gubbio, importante opera rinascimentale di ebanisteria che era stata da poco restaurata e e “rimontata” come in origine, riproducendo le stesse fonti di luce della collocazione originale. Per ciò che concerne l’oreficeria, ai soli due manufatti esposti nel museo prima del 1997, nel nuovo allestimento si aggiunsero così altri cinque pezzi, anche a seguito degli approfondimenti sulle attribuzioni da me condotti. Molti degli altri reperti non sono esposti per mancanza di adeguati spazi espositivi, problemi di conservazione, mancanza di dati certi. Va sottolineato che solo una minima parte dei ventuno pezzi sono opere già ampiamente pubblicate e note alla critica, prima tra tutti la famosissima croce a niello attribuita a Baldini2 inv. 17.190.499 di provenienza fiorentina, già citata in mostre a Dusseldorf e a Londra al V&A all’inizio del XX secolo3. La maggioranza degli oggetti risultava invece poco indagata, talvolta ancora catalogata con attribuzioni generiche o errate, sicuramente questo era il caso di  uno dei pezzi oggetto del presente articolo.

La tipologia  variava tra croci, reliquari, paci, ostensori, cofanetti, ricci di pastorale, placchette e medaglioni, a loro volta decorati a sbalzo, smalti cloisonné, smalti dipinti e traslucidi, a niello, a graffito su oro. Al contrario la selezione delle opere da trattare nel presente articolo è stata effettuata secondo la  loro appartenenza ad un ben preciso ambito stilistico e tecnico: si tratta di  manufatti in argento dorato caratterizzati da preziosi  smalti traslucidi e dipinti, inseriti un’edicoletta centinata e poggianti su un fusto più o meno elaborato.

I tre esemplari oggetto del confronto sono:

– un tabernacolo ad ante mobili  su fusto inv. 17.190.859 del Metropolitan Museum, (Figg. 23) inedito perché non esposto (schedato nella tesi, si veda oltre)

– il reliquiario della Vera Croce di San Mauro Castelverde (Figg. 45) (sulle Madonie, provincia di Palermo, Diocesi di Cefalù, riportato nella tesi come confronto del precedente)

– la cosiddetta Pace di Rivolta d’Adda del  Museo Poldi Pezzoli inv. 541 Milano (Fig. 6), anch’essa citata come confronto nella tesi.

Il contributo della scrivente legato alla comparazione diretta dei manufatti, getta nuova luce sulla provenienza di alcuni di essi e sulla loro funzione d’uso, con riferimento  alle manomissioni/restauri subiti nel tempo e alla storia della loro musealizzazione. Si aggiungono inoltre indicazioni sulla  tecnica esecutiva, nonché sullo stato di conservazione, evidenziandone similitudini e differenze legate al loro differente  percorso storico e si ipotizzano possibili provenienze comuni.

Lo studio trae spunto dall’enciclopedica esperienza di Maria Accascina che già li aveva accomunati nel suo studio sull’oreficeria Siciliana Oreficeria di Sicilia dal XII al XIX secolo del 1974, avendo pubblicato nello specifico il reperto siciliano. Quest’ultimo è stato poi estensivamente  indagato a partire dal 2005 da Paola Venturelli che nell’ambito dei suoi studi sull’oreficeria lombarda ha approfondito l’iconografia degli smalti ed ha proposto interessanti ipotesi attributive4. Avevo già  riportato in sede di tesi  le osservazioni dell’Accascina in riferimento appunto all’inedito tabernacolo del Metropolitan Museum, che qui trovano conferma. Figura di spicco nel panorama della storia dell’arte siciliana, l’Accascina fu una pioniera nel settore dello studio delle arti decorative, scoprendo, studiando e valorizzando per prima l’inestimabile patrimonio di oreficerie siciliane (e non solo), e realizzando, con il lavoro di una vita, la pubblicazione sopracitata, che rimane a tutt’oggi una pietra miliare nel settore.

Nel suo libro essa aveva dedicato svariate pagine con belle fotografie a colori al reliquiario siciliano5  ed aveva citato gli altri due manufatti  ma senza  riferimenti precisi: non erano infatti riportati né numeri d’inventario né foto. Ma se nel caso della Pace di Rivolta d’Adda, la sua descrizione ne rende inconfutabile l’identificazione : “…il Tabernacolo con gli smalti rappresentanti l’Angelo e l’Annunciazione nei due sportelli e all’interno, il Presepe al centro e San Bernardino e altro Santo ai lati…”, per il pezzo newyorkese non specifica dettagli, ma è naturale pensare che si riferisse al Tabernacolo inv. 17.190.859 per la similitudine stringente, quanto a forma e smalti, agli altri due manufatti. Il pezzo di New York da me studiato era ed è a tutt’oggi conservato nei depositi, sconosciuto alla critica, e nel catalogo del dipartimento di appartenenza, ESDA (European Sculpture and Decorative Arts) risultava segnalato solo dallo Steingraber, che quindi lo aveva visto, come esempio di arte orafa milanese di fine ‘4006. L’Accascina, com’era sua abitudine, aveva certamente preso visione diretta di tutti e tre i manufatti, quello siciliano come già sottolineato lo aveva studiato direttamente, addirittura smontandone i pezzi, come testimoniano le foto a colori della sua pubblicazione, e li aveva giustamente accomunati sia da un punto di vista formale che, forse, di manifattura, individuandoli  come probabili opere di maestranze lombarde di fine ‘400. Nel cercare di ripercorrere le sue orme e ricostruire quando essa abbia visto i tre tabernacoli, solo per il reliquiario di San Mauro abbiamo una documentazione certa: la sua pubblicazione del ’74 e le numerose visite alla ricerca di tesori sconosciuti nei paesi delle Madonie, di cui scriveva regolarmente sui giornali7. Da questi preziosi articoli si percepisce la difficoltà che deve avere avuto nello scovare gli innumerevoli tesori di oreficeria dell’isola, vincendo le resistenze e l’ignoranza dei custodi di tali reperti, quello che narra riguardo al  nostro reliquiario è solo uno degli esempi. La notizia minuziosamente descritta nei suoi articoli di giornale, del fallimento della sua prima agognata visita, poiché dopo un lungo ed estenuante viaggio per raggiungere il paese, il parroco era introvabile, nei campi, a dorso d’asino con le chiavi della cassetta che custodiva il prezioso tesoro, mi è stata confermata per tradizione orale8. In verità, come ha evidenziato Paola Venturelli,  il reliquiario, prima dell’Accascina era già stato velocemente citato solo da Enrico Mauceri sulle pagine de L’Arte nel 19079.  Nel tentare di ricostruire quando l’Accascina abbia potuto vedere gli altri due tabernacoli, possiamo fare delle ipotesi legate ai suoi numerosissimi viaggi; per quanto riguarda il pezzo del Poldi Pezzoli, la studiosa fu sicuramente a Milano in più occasioni, ma per certo nel 1936 per recensire la Triennale di Milano. Alla Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali e dell’architettura moderna erano esposti i capolavori di oreficeria antica e di argenteria più rappresentativi di tutta Italia, secondo un allestimento d’avanguardia di Franco Albini che la studiosa non aveva per niente apprezzato10. La sua probabile visione dell’esemplare del Metropolitan Museum  è decisamente più tarda,  si può forse collocare nel 1969 in occasione di un suo viaggio negli Stati Uniti per un ciclo di conferenze  in cui è stata sicuramente a New York11.

Il tabernacolo del Poldi Pezzoli (cosiddetta Pace di Rivolta d’Adda) si trova ad essere l’unico dei tre manufatti visibile al pubblico, essendo il solo esposto in un museo da più di un secolo, (il pezzo del Metropolitan è da sempre in deposito e quello siciliano custodito presso la canonica della Madrice di San Mauro Castelverde) è anche quello, dei tre, più noto alla critica, vantando come vedremo più avanti una notevole bibliografia. Esistono da tempo riproduzioni fotografiche di tale oggetto nei cataloghi del museo.

Per l’opera siciliana le foto a colori del fotografo Enzo Brai  che ha coadiuvato l’Accascina nella  pubblicazione sono state da allora (1974) le uniche pubblicate, ed il pezzo non è mai stato visibile, neanche alla popolazione di San Mauro, se non dai chierichetti che lo vedevano nell’armadio di sacrestia dell’antica Chiesa Madrice di San Giorgio, ove era custodito entro la sua custodia originale. Avendo di recente tenuto una presentazione dell’oggetto ai cittadini del paese (11 Agosto 2012) ho avuto modo di ascoltare testimonianze dirette di un ex chierichetto12 che raccontava come alla fine degli anni ’60 e prima della pubblicazione sull’oreficeria del ’74 il pezzo mostrasse una piccola lacuna di smalto che interessa, visibile già nelle foto del Brai, la lastrina in basso con l’ultima cena. Del prezioso reperto, la studiosa parla come di uno strepitoso e raro oggetto di oreficeria forse milanese della fine del XV secolo e cita la diceria secondo la quale esso fosse stato donato da Papa Pio II ad un prete di San Mauro (si trattava di una voce già riportata dal Mauceri, come riferito da Paola Venturelli, v. nota 9), evidentemente tramandata da tempo a San Mauro, ma errata, in quanto il pontificato di Papa Pio II  è degli anni ’50 del 1400, quindi anteriore alle realizzazione dell’opera). La notizia aveva però un fondo di verità: non si trattava di Papa Pio II ma vi era comunque coinvolto un altro papa. L’Accascina non era infatti al corrente dell’importantissimo documento d’archivio che sarebbe stato pubblicato di lì a poco, nel 1976, che costituisce il punto di svolta per la storia dell’opera, nonché lo spunto per questo articolo. Si tratta di un manoscritto che era custodito dal 1700, data della sua redazione, nella casa della famiglia Leonarda. Rinvenuto, decifrato e pubblicato dopo anni di fatica dall’ erede della famiglia, il Dr. Gioacchino Drago13, il cui figlio, nell’86 ha donato al Comune di San Mauro i diritti d’autore,  risulta  redatto dall’Arciprete Don Francesco La Rocca nell’anno 1700, con il seguente titolo: Tradizioni, e Memorie Antiche e Moderne della Terra di San Mauro Raguagliate da mè D.D.Francesco la Rocca Arciprete, delle Medema Terra Nel principio del Novello Secolo MDCC. Don Francesco La Rocca, che visse tra 1646 e il 1737 tra San Mauro e Roma, raccoglie le notizie storiche sul paese, e  descrive in dettaglio chiese e conventi con i relativi arredi. La preziosa testimonianza, ripubblicata in ristampa anastatica  nel 1997 dal Comune di San Mauro Castelverde14, non era nota alla critica semplicemente perché pubblicata in loco e poco divulgata; ad essa aveva già fatto riferimento Giovanni Travagliato a proposito della figura di Vincenzo Greco15 e delle sue donazioni di reliquie alla Sicilia; personaggio chiave, come vedremo più avanti, anche per il nostro reliquiario.

Lo scritto è  opera estremamente interessante per la storia di San Mauro e delle Madonie nel ‘600 e per tracciare in parte, almeno dalla metà del XVII secolo, la provenienza del prezioso manufatto; sono per lo più di notizie di prima mano “vissute” dall’autore. Don Francesco La Rocca, oltre ad essere stato Arciprete ed avere guidato la Chiesa di San Mauro per 55 anni, si fece promotore di numerosi restauri di edifici di culto, ne edificò di nuovi, stilò un elenco dettagliato di tutte le reliquie giunte da Roma riportando gli atti notarili e le autentiche pontificie. Egli riporta la storia del paese dalle origine al suo tempo, con una dettagliata descrizione del territorio, dei beni ecclesiastici e delle loro dotazioni di arredi e reliquie di cui testimone diretto.

Nato intorno al 1642 a San Mauro e deceduto a 80 anni nel 1736, passò alcuni anni a Roma coadiuvando il più illustre concittadino Don Vincenzo Greco che a sua volta vi morì novantenne e lì fu inumato con prestigiosa sepoltura in una cappella in Santa Maria Maggiore. Entrambi uomini di chiesa, molto legati al loro paese di origine, crearono un forte legame con Roma e tra di loro, pur essendo il Greco più grande del primo di almeno 40 anni, essendo nato a fine ‘500. La figura chiave per tracciare la storia del reliquiario è proprio quella di Don Vincenzo che partito come semplice sacerdote da San Mauro, dopo aver compiuto gli studi a Monreale, passando per Palermo si recò poi a Roma  dove  ebbe una brillante carriera in Vaticano: fu al servizio di quattro Cardinali, poi “…Rettore del famoso Collegio di propaganda Fide che non potendo il suo zelo soffrire qualche ligirezza di quella gioventu’ forastiera, volontariamente lasciò la carica, ricusando costantemente un Vescovato offertoli da quella Congregatione di Cardinali…”16.  Ebbe, tra gli altri,  dal Papa Urbano VIII l’incarico di sovrintendere all’esumazione dei corpi dei primi martiri cristiani dalle catacombe, e riuscì ad ottenere per San Mauro il corpo di S. Vittoria per cui fu costruito un reliquiario d’argento nel 1645, ed ottenne altri importanti  arredi, di cui il più prezioso è il nostro reliquiario della Vera Croce. Si trattava, come riferisce il Greco, di un ostensorio che veniva portato in processione dai Pontefici da Urbano VIII (Barberini) fino a  Innocenzo X (Pamphili) che, cambiato il gusto, nel 1646 lo sostituì mettendolo in vendita. Attraverso la sorella del Papa, Donna Plautilla Panfili, Badessa del Monastero di S. Marta in Roma, che ne era venuta in possesso, passò al suo confessore, Don Vincenzo Greco appunto. Questi lo fece trasformare in reliquiario, aggiungendo sulla lunetta che portava l’ostia, una croce d’oro con inserito un frammento della vera croce. A quel momento si deve far risalire l’iscrizione incisa sulla lunula, su entrambe le facce: D . LIGNO . S CRUCIS17. Il La Rocca cita un atto notarile del 1663 con l’autentica della reliquia: “…scripta in carta Pergamena fu data in Roma sotto il p. di gennaro 1663 e l’approvatione di Mons. D. Simone  Caraffa Arciv. di Messina a due di Marzo dell’anno medemo…”18 e poi il successivo atto con cui l’opera viene donata alla Chiesa Madre di San Mauro, di fronte al notaio Pietro Agnello, il 3 Maggio dello stesso anno.  Come ricompensa per tale cessione “…la Chiesa suddetta grata d’un tanto beneficio li fece un dono di cento scudi”. A San Mauro il reliquiario, ritenuto già allora di inestimabile valore anche per la prestigiosa provenienza, veniva portato ogni anno in processione “…ogn.anno il giorno della Exaltatione di S. ta Croce a 14 di 7bre, con l’intervento di tutto il Clero, Magistrato, e Popoli…” Sappiamo inoltre che veniva conservato nella Chiesa Madre sotto chiave insieme alla reliquia di San Mauro in un’apposita nicchia nel muro della cappella di San Giorgio, confinante col coro, chiusa con aperture di legno e di ferro e con 5 chiavi19. Vincenzo Greco mori’ a Roma  nel 1687 e fu sepolto nella Chiesa di Santa Maria Maggiore; In conclusione, il manoscritto ci fornisce molte preziose notizie sul reliquiario: sul suo utilizzo come ostensorio “…Di questo Ostensorio si servivano li antichi Pontefici, nella sollenne Processione  del Corpus D.ni che per autentica , ancora vi stà la lunetta dove stava la sacra Ostia collocata20,da parte dei Papi, almeno fino al 1646, quando Papa Innocenzo X decise di sostituirlo con uno nuovo. Era già considerato d’inestimabile valore al suo tempo “…in sostanza non ha prezzo, per l’eccellenza della Manifattura, nonché della Maestria”. Sull’origine della reliquia, il La Rocca, già conscio della  dubbia provenienza della gran quantità di reliquie “sul mercato”  “…che fan dubitare ad alcunj della vera, e regale verità, per la qualità, e rarità come sono il legno della Santa Croce in tanta quantità, li spini della Corona del Signore, latte e Capelli  di M. V. fieno del Presepe, Reliquie di tutti gl’Apostoli…” 21, narra come il Greco si sia procurato reliquie di prim’ordine, di provenienza certa, autorevole, e autenticate. Ha avuto infatti, sempre in qualità di confessore, accesso privilegiato al famoso Reliquiario del Cardinal Pallotta, attraverso la sorella dello stesso; tale reliquiario era stato create dal cardinale che  a sua volta, essendo stato  tra i favoriti (…familiare e creatura) di papa Urbano VIII, aveva ottenuto per sé alcune delle reliquie più importanti dal tesoro di San Giovanni in Laterano e dalla chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, dov’erano appunto custoditi alcuni frammenti della Vera Croce22.

In sintesi, il nostro manufatto, di apparente committenza papale (Alessandro VI Borgia) come ipotizza Paola Venturelli,  giunto a San Mauro attraverso Don Vincenzo Greco nel 1663, ma entrato in suo possesso e trasformato in reliquiario, con l’inserzione della croce con il sacro legno, tra 1646 anno in cui ne è entrato in possesso e il 1663, è  conservato nella sua custodia presso la Chiesa di San Giorgio a San Mauro. Non è stato mai esposto né visibile al pubblico, se non  in occasione della celebrazione del rinvenimento della croce  ogni 14 Settembre, sino a pochi anni fa.

Da allora esso non è stato più praticamente toccato, e tale rarissima condizione è ciò che lo distingue dagli altri due simili tabernacoli.

La “riscoperta” del documento a San Mauro, l’interesse nel  ripercorrere le orme dell’Accascina, e la possibilità di potere nuovamente fotografare il reliquiario siciliano hanno creato l’occasione per un confronto con fotografie a colori dei tre pezzi. In due casi su tre ho preso visione e  fatto personalmente le fotografie23, mentre il reliquiario del Poldi Pezzoli è stato visto soltanto attraverso la vetrina del museo che però ha gentilmente fornito le fotografie24.

Le fotografie a colori, fondamentali per questo tipo di confronto, permettono subito di evidenziare, ad una prima analisi visiva degli smalti (Fig. 7), una decisa similitudine di toni tra il reliquiario di San Mauro e il pezzo del Metropolitan Museum, mentre quello del Poldi Pezzoli si distingue nettamente per la semplicità della  cromia: i primi due sono caratterizzati dall’uso di una vasta gamma cromatica, con colori anche rari ed inusuali (certamente più elaborati da mettere in opera); oltre ai canonici blu e verde, sono presenti il giallo, il marrone e il bruno-violaceo, oltre al luminosissimo azzurro turchese in pochi preziosi dettagli, il tutto rifinito con poche lumeggia ture di smalto bianco a pittura. Ritengo a questo proposito rimandare ai già approfonditi studi di Paola Venturelli che a partire da fine anni ‘90 ha indagato a tutto campo storia e iconografia degli smalti milanesi:  Leonardo e le arti preziose. Milano tra XV e XVI secolo del 2002; Esmaillé à la façon de Milan. Smalti nel Ducato di Milano da Bernabò Visconti a Ludovico il Moro del 2008, e

Smaltisti milanesi intorno al 1500: fonti iconografiche. L’ ‘antico’, Mantegna e gli altri (tra Lombardia e Roma), in Mantegna e Roma. L’artista davanti all’antico, atti di un convegno 201025. Noto comunque che  la similitudine estrema delle cromie utilizzate, l’evidente  vicinanza stilistica e la già notata contiguità nei motivi decorativi della cornice, a volute e pigne possano adombrare una comune provenienza per il tabernacolo del Metropolitan e quello siciliano, anche se quest’ultimo risulta indubbiamente più prezioso in quanto mostra addirittura il raro smalto rosso per cui si rimanda più avanti. Il pezzo milanese si caratterizza  invece per una tavolozza molto più limitata, con blu e giallo/marrone, e numerose lumeggiature in bianco. Si rileva inoltre come qui gli smalti siano in prevalenza a pittura e non traslucidi come negli altri due casi. È evidente anche una mano del tutto diversa, con figure più tozze e talvolta sgraziate ed una minore padronanza della resa prospettica, con le figure che risultano ammassate in primo piano, come si nota nella Crocifissione. Volendo  evidenziare, grazie al confronto diretto dei tre oggetti, anzitutto l’aspetto della similitudine/diversità degli smalti e della forma centinata dell’edicola che per primi balzano all’occhio, è interessante sottolinearne anche le singole peculiarietà. Le misure differiscono di molto per la diversità dei piedistalli, ma non delle edicole, piuttosto simili. Il reliquiario di San Mauro26 essendo dotato anche di una figurina apicale, con un piede polilobato di cm 11×14,  è  il più alto di tutti, cm 39,7; quello del Metropolitan  cm 22 (si veda riferimento alla scheda, più avanti), e quello del Poldi Pezzoli cm 16,5, ma va rilevato che questi ultimi due hanno basi non originali (aggiunte e/o manomesse).

Le edicole, nei tre esemplari sono sempre smaltate su entrambi i lati; si differenziano in quanto nel caso del tabernacolo newyorkese il lato della Crocifissione, è dotata di un anta apribile (Fig. 8), smaltata anch’essa su ambo le facce (all’interno San Sebastiano, sul fondo e San Girolamo sull’anta); nell’altarolo del Poldi Pezzoli   vi sono due antine raffiguranti all’esterno l’Annunciazione, che aperte rivelano la Natività. (Figg. 910) Nel reliquiario siciliano le due facce dell’edicola sono fisse, con la Crocifissione da un lato (Fig. 11) e la Resurrezione dall’altro (Fig. 12); su questo lato è presente uno sportellino apribile con cristallo di rocca che protegge la reliquia della croce custodita all’interno (Fig. 13).

Vi sono altre evidenti contiguità nei motivi decorativi della struttura metallica, in particolare quelli  della cornice, con volute contrapposte e pigne (quasi identici nell’esemplare siciliano e in quello del Metropolitan Museum), o delfini, motivi a torciglione, cornucopie, ma non entro qui nel merito di confronti stilistici approfonditi.

Gli smalti sono ormai definitivamente acquisiti come di area lombarda, o di orafo lombardo operante a Roma di fine XV secolo27. Uno dei primi studi specifici sugli smalti lombardi di quel periodo presenti in collezioni europee ed americane, che infatti cita alcuni dei nostri smalti è del 1977 da parte di Steingraber28, che riprende a sua volta le osservazioni fatte mezzo secolo prima da Malaguzzi Valeri29, poi dalla metà degli anni ’80 l’argomento è stato indagato da diversi studiosi. Oltre a Paola Venturelli, (già citata anche in riferimento al reliquiario di San Mauro),  Annalisa Zanni, attuale direttore del Museo Poldi Pezzoli che per ultima ha pubblicato in maniera esaustiva l’altarolo del museo milanese30 e per i raffronti con i nostri manufatti, Marco Collareta31. In generale i più recenti studi sugli smalti sono legati a importanti mostre sull’oreficeria lombarda a partire da fine anni ’9032.

Ai fini  di un confronto più preciso tra i tre manufatti, relativamente all’inedito tabernacolo del Metropolitan Museum, ritengo opportuno riportare per intero la scheda  così come presentata nella mio studio del 1997, non essendo essa pubblicata33:

“TABERNACOLO AD ANTE MOBILI  inv. 17.190.859

Metropolitan Museum of Art

Collocazione: depositi ESDA

Provenienza: dono di J.P.Morgan 1917

Lombardia, Milano, o orafo milanese, fine XV sec.

Argento dorato, smalti traslucidi e a pittura per il tabernacolo, smalti a pittura e rubini sul nodo.

H cm 22 x 8,1 (larghezza piede)

Sul nodo l’iscrizione: AVE MARIA . GRACIA . PELENA . DOMINUS . TECOM

Stato di conservazione: pessimo a causa della corrosione degli smalti che ha reso la superficie a tratti illeggibile, specialmente all’interno dell’anta apribile.

Questa tipologia di oggetto, costituita da una grossa base rialzata e un massiccio nodo su cui s’innesta direttamente il tabernacolo, è piuttosto inusuale. È costituito da tre sezioni ben distinte, assemblate. Il piede, o basamento, a sezione quadrangolare poggiante agli angoli su quattro sferette, è costituito da un tronco di piramide con le facce concave sui cui spigoli sono applicati quattro delfini a tutto tondo. Il bordo inferiore della cornice, che poggia direttamente sulle quattro sferette, reca a sbalzo un motivo ad ovoli; sopra di esso una cornice con motivo a torciglione. Le quattro facce sono decorate con la rappresentazione in smalti a pittura di quattro teste barbute, forse gli evangelisti, inserite entro ghirlande d’alloro; il cattivo stato di conservazione, dovuto ad un vecchio intervento di restauro in cui è stata applicata una patina di materiale ora ingiallito, rende difficile la lettura delle figure. Si vede però chiaramente che esse sono realizzate con tocchi di smalto bianco applicato a pennello su una base di smalto blu opaco.

Sopra la base piatta del piede, a sezione quadrata, s’innalza il complesso nodo a urna con piede circolare, caratterizzato da baccellature a leggero rilievo, smaltate con motivi a grottesche in bianco su fondo, alternativamente blu e rosso scuro. Al di sopra delle baccellature corre una fascia bombata in cui sono incastonati sei rubini rettangolari, alternati a smalti imitanti pietre preziose; su di essa poggia un ulteriore fascia, più stretta, che reca in smalto blu su fondo bianco l’iscrizione dedicatoria alla vergine. Ai due lati della strozzatura del nodo, in maniera simmetrica, sono poste due cornucopie interamente smaltate in blu scuro, con stelline d’oro, con le estremità in forma di fiori a stella, dai petali smaltati. Il tabernacolo vero e proprio è in forma di edicola con l’estremità centinata, ed è arricchito lungo la fascia esterna da un fregio a giorno costituito da pigne smaltate, alternativamente in nero e bianco, con puntini del colore opposto, che si ritrovano identiche nella cornice del reliquiario di cui sopra. Sul pannello frontale, che costituisce l’anta apribile del tabernacolo, si trova la scena della Crocifissione, mentre sul recto è raffigurata l’adorazione dei Pastori. Aprendo l’anta, sul fondo si trova raffigurato il martirio di San Sebastiano, con il santo trafitto dalle frecce, appoggiato ad un albero; sull’interno dell’anta si trova, in pessimo stato di conservazione, la rappresentazione di San Girolamo come eremita in un paesaggio roccioso.

Il tabernacolo, di cui non risulta nel catalogo del museo alcuna notizia relativa alla provenienza prima del suo ingresso nella collezione Morgan, ha subito una variazione nell’attribuzione nel 1953, da parte dei Curators di ESDA, passando da  “ Italiano; prima metà  XVI secolo” a “ Nord Italia, Lombardia (?); inizio XVI secolo”.

Tracce evidenti di un vecchio restauro, non documentato nel catalogo del museo, quindi anteriore al 1917, sono visibili sotto forma di una patina di materiale proteico-gelatinoso presente sulla superficie vitrea, sia nel tabernacolo vero e proprio, sia negli smalti del piede. In occasione di questo studio è stato possibile testare la composizione di alcuni degli smalti prelevati da varie parti dell’oggetto; i risultati hanno confermato le ipotesi precedentemente formulate. Gli smalti tratti dalla superficie  delle ante sia interne che sterne del tabernacolo, che già ad un primo esame visivo parevano essere più antichi, e comunque diversi da quelli del nodo e del piede, sono infatti risultati originali, mostrando una composizione affine a quella di altri smalti milanesi del Rinascimento. I campioni prelevati dalle pigne lungo il bordo del tabernacolo e dai petali che si trovano sul nodo, si sono invece rivelati molto più tardi, probabilmente ottocenteschi, come pure gli smalti presenti sulle facce del piede. Questi ultimi erano già apparsi manomessi o comunque frutto di un precedente restauro per la presenza della suddetta patina apposta. Per quanto riguarda la superficie vitrea, si deve quindi necessariamente distinguere il tabernacolo, sicuramente originale, dal resto degli smalti lungo il bordo, sul nodo e sul piede, che sono sicuramente un rifacimento, opera di qualcuno dei numerosi falsari attivi a fine ‘800.

La tecnica degli smalti del tabernacolo è quella utilizzata a Milano alla fine del ‘400 degli smalti misti, in cui su una base a smalti traslucidi, dai colori iridescenti, sono dipinte le figure in smalti opachi (smalti a pittura) principalmente in blu e bianco.

I suoi più diretti confronti sono  altri due pezzi milanesi, di cui uno, il tabernacolo di Rivolta d’Adda, si trova al Museo Poldi Pezzoli (nota cfr. Zenale e Leonardo, 1982, scheda n.20 p. 72; Malaguzzi Valeri F., 1917, voll. 3 fig 363); esso è stato manomesso in un restauro novecentesco in cui è stata aggiunta l’attuale base per cui l’unica parte originale ed utile per il confronto è il tabernacolo. A differenza del nostro, che presenta sul verso un’unica anta apribile, il tabernacolo di Rivolta d’Adda è formato da due ante simmetriche, ma la forma esterna è identica, come pure la tecnica usata per gli smalti, e la presenza di particolari decorativi  tipici dell’arte lombarda come quello dei delfini che, situati ai quattro angoli della base del nostro, nell’altro tabernacolo si trovano collocati in sequenza lungo il perimetro, formando una cornice a giorno.

L’altro manufatto, il reliquiario di San Mauro a Castelverde in Sicilia, non essendo mai passato sul mercato antiquario, non è mai stato modificato da restauri; costituisce pertanto un termine di confronto assai efficace. Tale manufatto, ampiamente studiato e pubblicato da Maria Accascina (cfr. Accascina  M. Oreficeria…pp 166-170), costituisce un fondamentale punto di riferimento anche per un altro dei manufatti inclusi in questo studio cioè la pace n. 17.190.904 che mostra un’analoga cornice in pietre preziose.

Tornando al nostro arredo, esso oltre a presentare un tabernacolo molto simile a quello di San Mauro Castelverde sia per la forma che per la tecnica impiegata, poggia su un analogo piede quadrangolare a tronco di piramide, ed ha in corrispondenza dello stesso nodo a vasetto il motivo decorativo delle cornucopie e dei fiori in forma di stella. Avendo constatato che, ad eccezione di quelli del tabernacolo, i rimanenti smalti del nostro manufatto non sono originali, come conferma anche il fatto che gli analoghi smalti sul piede di quello di San Mauro sono realizzati con la tecnica mista del traslucido e del dipinto e non soltanto con la tecnica  “ a pittura” come nel nostro, si ricava l’impressione che l’eventuale falsario che ha manomesso l’oggetto, invece di creare una base secondo gli stilemi stilistici del suo tempo, come per il piede del tabernacolo di Rivolta d’Adda, abbia invece voluto ricreare un falso “in stile”, ispirandosi forse a pezzi simili al reliquiario di San Mauro. Anche il motivo a torciglione lungo la base si ritrova identico in altri pezzi lombardi coevi, come nella  Targa pendente del Poldi Pezzoli (inv. 572) e in una  pace del Louvre (n. inv UA 3036). Questi due manufatti fanno parte di un nucleo di oggetti studiati dallo Steingraber ( cfr. E. STEINGRABER, 1977, pp 371-387) che per la prima volta tenta una ricostruzione esauriente della produzione lombarda di smalti  della fine del ‘400; accanto ad essi figurano infatti anche la pace di Rivolta d’Adda, già confrontata con il nostro tabernacolo, ed un altro oggetto studiato nella mia tesi, il dittico  n. inv. 14.40.705 (cfr. Sophie Bonetti, Tesi di Laurea 1997 cat. n. 3). In definitiva l’unica parte sicuramente originale, eseguita a Milano alla fine del XV secolo è il tabernacolo. Per quanto riguarda la struttura portante, pur apparendo assai più tozza del più slanciato pezzo di San Mauro; essa rispecchia i moduli esuberanti dell’oreficeria lombarda del periodo, ed è quindi difficile stabilire con certezza se essa sia “moderna” o non sia piuttosto il riassemblaggio di parti originali del XV secolo, informazione che soltanto un restauro potrebbe fornire.”

In riferimento alla cosiddetta  Pace di Rivolta d’Adda, oltre ad essere citata da Malaguzzi-Valeri negli anni ’20 del 900 e da Steingraber nel 1977  nuovi dati sono emersi tra il 1981, data di stesura del primo catalogo dedicato alle oreficerie del Poldi Pezzoli ad opera di Gregorietti34 e fine anni ’90 quando è stato indagato da Annalisa Zanni35, che ha esaustivamente studiato il pezzo facendo emergere nuovi dati in merito a rifacimenti e restauri ed identificandone l’uso come stauroteca cioè come reliquiario della Vera Croce (la rappresentazione stessa della Crocifissione, anche dipinta simboleggiava la reliquia). Si tratta di un altarolo/tabernacolo con un edicoletta centinata  su piede polilobato le cui misure sono: h 16,5 cm, larghezza 7,3cm  ad ante chiuse, 9,4 ad ante aperte. La caratteristica di questo pezzo sono le due antine apribili, sono smaltate sia all’interno che all’esterno: ad ante chiuse  è raffigurata l’Annunciazione, ad ante aperte, San Bernardino a sinistra e San Ludovico da Tolosa a destra. Al centro la Natività, sul retro la Crocifissione. Acquisito dal museo nel 1903 dalla Fabbriceria di Rivolta d’Adda, e già noto alla critica da allora,  in occasione della mostra L’Oro e la Porpora Le arti a Lodi nel tempo del vescovo Pallavicino (1456-1497) del 1998   si sono acquisite nuove importanti informazioni circa la storia dell’oggetto in base a documenti d’archivio, come riportato da Annalisa Zanni, da cui traggo le notizie. E’ emerso ad esempio un restauro dell’opera commissionato dal museo al restauratore Augusto Gerosa nel 1904, poco dopo l’acquisizione, ma purtroppo senza descrizione dell’intervento eseguito, si parla di riparazione per una cifra piuttosto elevata, lasciando supporre  pertanto un intervento importante. Si hanno invece notizie di un restauro condotto nel 1982 e documentato in occasione di una nota mostra al Poldi Pezzoli, Fatti come Nuovi 36; in quell’occasione è stato condotto un intervento per fermare il degrado causato dai sali di corrosione del metallo, senza dubbio il fattore di alterazione più incombente per tutti i manufatti smaltati. Riguardo al piede, dopo molte e contrastanti ipotesi si è stabilito che esso non era originariamente pertinente all’oggetto, che  erroneamente chiamato pace, nasceva in realtà come stauroteca, cioè reliquiario della vera croce, non necessariamente dotato di piede. Si tratta forse reimpiego di un piede tardo medievale di area nordica, probabilmente un aggiunta tardo- ottocentesca, come aveva già suggerito G. Romano nella mostra Zenale e Leonardo dell’82, come conferma anche Annalisa Zanni. Anche un’altra porzione del manufatto, l’antina laterale sinistra smaltata con l’angelo annunciante (all’esterno) e il San Bernardino (all’interno), risulta essere  un restauro/completamento tardottocentesco. Considerando tali  interventi scaturiti  con tutta probabilità  all’ondata di revival per il gotico legato alla cultura del tempo e in particolare per gli smalti e l’oreficeria nordica di fine ottocento,  ritengo  plausibile che  siano opera di uno stesso orafo/restauratore e che siano stati eseguiti per rendere più “appetibile” l’oggetto sul mercato, una volta decisane la vendita, come avvenne con tutta probabilità per il tabernacolo del Metropolitan. Fu venduto per una cifra esorbitante per l’epoca, per permettere lavori alla Chiesa di Rivolta d’Adda. Se l’inserzione del piede pare essere stata fatta in maniera grossolana, creando la caduta di porzioni di smalto dal fusto, l’antina rifatta sembra frutto di un’attenta ricerca iconografica (come sottolinea Annalisa Zanni) e di grande esperienza nell’uso dello smalto, tecnica estremamente farraginosa e complessa.

Svariati trattati medievali e rinascimentali descrivono le procedure per realizzare smalti a pittura e traslucidi, quest’ultimo tipo è il più difficile da ottenere poiché implica le stesura di smalto colorato ma trasparente, secondo una tecnica ancora più elaborata di quella del normale smalto opaco. Tra gli autori che ne parlano più nello specifico basti citare Benvenuto Cellini, nel suo trattato Dell’oreficeria del 1568, che descrive minuziosamente materiali e procedimenti37 ma anche  Leonardo da Vinci che, presso la corte di Ludovico il Moro per quasi un ventennio, si cimento’, da vero artista poliedrico, anche nell’arte dell’oreficeria e dello smalto38. Dalle loro pagine si evince l’estrema complessità legata alla realizzazione dei manufatti smaltati  e quindi la loro preziosità, legata anche alla loro estrema fragilità. La messa in opera di porzioni smaltate su una struttura metallica presupponeva la realizzazione a parte (quando possibile) di laminette sulla quali veniva apposto lo smalto, che erano successivamente assemblate sull’oggetto. Chi realizzava le laminette smaltate, che fossero traslucide o a pittura, doveva avere dimestichezza con l’arte orafa tradizionale (uso di bulino, cesello, fusione…) per  approntare il supporto, in oro, argento, rame o leghe metalliche, ma doveva essere anche un buon pittore, o miniatore: Cellini dice espressamente che gli smalti vanno applicati “…nettissimamente,come se uno proprio miniassi…”. Erano richieste pertanto competenze nel disegno e nell’uso di colori, ma anche conoscenze sulle caratteristiche di fusione e applicazione del vetro. Lo smalto, nelle due versioni, traslucida e opaca, altri non è infatti che vetro, colorato e/o opacizzato con ossidi metallici che si trovano in natura. Le procedure sono le stesse che riguardano l’arte e la tecnologia del vetro che si trovano nei ricettari medievali e rinascimentali,  ma anche le stesse citate nei trattai legati alla realizzazione della ceramica smaltata, basti citare il Piccolpasso con la sua opera Li tre libri dell’arte del vasaio del 1548: lo smalto o la vetrina che  rivestono  il corpo ceramico di un manufatto sono in pratica la stessa versione dello smalto, “ a pittura” o traslucido, delle oreficerie, e sono assimilabili anche alle tessere vitree utilizzate in maniera massiccia nei mosaici bizantini. Il procedimento per la formazione delle paste vitree è indubbiamente lo stesso e attraverso trattati medievali suffragati da  indagini archeometriche sono emersi esempi di riutilizzo di tessere musive in paste vitree per ottenere smalti: lo specialista Marco Verità, esperto di vetraria evidenzia tale prassi dal trattato medievale del monaco benedettino Teofilo vissuto in Germania,  De Diversis Artibus, che spiega come ottenere smalti per la decorazione delle lamine metalliche tramite la fusione di tessere vitree opache di mosaici romani; tale usanza è confermata da scavi effettuati a San Vincenzo al Volturno (IX sec) dove in una zona di fornaci sono stati rinvenuti resti di tessere vitree parzialmente rifuse all’interno di crogiuoli per vetro39. Si scopre per esempio come la pratica di “contro- smaltare” le lamine metalliche sul retro della lamina, quando ciò era reso possibile dalla forma, per esempio nei piedi dei manufatti, fosse prassi comune per motivi di metodologia40:la smaltatura  sulle lamine veniva infatti  realizzata stendendo il vetro, macinato finemente, sulle stesse e ivi fissato mediante cottura ad alte temperature che lo facevano  prima fondere poi indurire saldandosi al supporto in fase di raffreddamento. Ma il diverso comportamento dei due materiali, vetro fuso e metallo, in fase di raffreddamento, rischiava di creare tensioni disomogenee con conseguenti difetti come distacchi e fessurazioni, ai quali si cercava di ovviare appunto con la pratica di contro-smaltare la superfici, in modo da rendere più omogenea  la fase di raffreddamento. Come narrano chiaramente sia il Cellini che Leonardo, le difficoltà legate alla creazione dello smalto su oreficeria erano altissime sia per la messa in opera che per la loro conservazione: si raccomanda agli orafi di fare innumerevoli prove per trovare l’esatto punto di fusione comune a tutti gli smalti, per non inficiare tutto il lavoro svolto41; era inoltre estremamente difficile garantire la perfetta e permanente adesione dello smalto, specie se traslucido, alla lamina di supporto, trattandosi comunque di materiali chimicamente non compatibili tra loro ma solo di due strati giustapposti (vetro su metallo). Questo è il motivo per cui le lamine d’argento deputate a ricevere lo smalto traslucido (trasparente), solitamente blu e verde, venivano fittamente incise a tratti paralleli, a losanghe o altro, a scopo certamente anche decorativo, ma principalmente per fare “aggrappare” meglio lo strato vetroso al metallo.  Il reliquiario di San Mauro, come il tabernacolo del Metropolitan  è caratterizzato, come già evidenziato dall’uso di smalti di una ampia gamma cromatica, ma ha in più il rarissimo rosso, presente sui medaglioni del piede con volti (Fig. 14). Dello smalto rosso, “…il più bello di tutti gli altri…” secondo il Cellini, sappiamo che è il più difficile da ottenere, e che secondo tradizione si applicava a differenze degli altri solo su lamina d’oro. Ve ne sono pochissimi esempi e solitamente su piccole porzioni. Il reliquiario mostra inoltre all’interno del piede tracce di contro-smalto, proprio come nel piede del Tabernacolo Pallavicino, del Museo Diocesano di Lodi42, ma a differenza di quest’ultimo, che mostra una stesura monocroma, nel nostro abbiamo pochi residui lungo gli angoli, ma riccamente decorati con girali (Fig. 15).

Altro aspetto che evidenzia una similitudine ma decisa superiorità del pezzo siciliano rispetto a quello milanese è la presenza di una decorazione smaltata a losanghe  nell’intradosso della teca, cioè nella parte apribile. Mentre quest’ultimo reca una semplice decorazione a losanghe, che si ripete su tutto l’intradosso, nel  primo si nota una decorazione a losanghe intrecciate con nodi, in basso (Fig. 16), e addirittura un motivo figurato nella centina, con putti e angioletti su sfondo di nubi (Fig. 17). Alla luce dei fatti si comprende l’unicità del pezzo siciliano rispetto agli altri sia per la qualità degli smalti, per la ricchezza del decoro (l’edicoletta a smalti era in origine arricchita da cornice con perle e pietre preziose, queste ultime oggi perdute) che per l’accuratezza della lavorazione dei dettagli anche più nascosti (l’interno del piede è decisamente una parte nascosta e inaccessibile): ritengo quest’ultimo particolare  un’ulteriore conferma dell’alta qualità del pezzo, che suggerirebbe una prestigiosa committenza, come già ipotizzato da Paola Venturelli.

Altro primato è il suo stato di conservazione dal momento che, almeno dalla metà del ‘600, non è stato mai toccato. Sottolineo la condizione più unica che rara di questo manufatto, che  rispetto agli altri due, passati sul mercato antiquario, manomessi e musealizzati, è l’unico che, ancora custodito nella custodia in cuoio originale, rivestita internamente di velluto cremisi, con la quale è giunto da Roma nel 1663,  e che ha mantenuto fino a tempi recenti la sua funzione di oggetto di culto senza subire le modifiche o reinterpretazioni legate al mutamento del gusto che si rinvengono frequentemente in manufatti di questo tipo. Questo è senz’altro dovuto all’isolamento e alla poca notorietà del piccolo ma affascinante paese di San Mauro, che ne ha garantito la preservazione. Si può senz’altro evidenziare come la maggior parte delle oreficerie sacre conservate nei musei diocesani e chiese di appartenenza in tutta Italia siano stati soggetti a manomissioni, alterazioni, spesso modifiche della loro funzione liturgica nel corso dei secoli. Tali modifiche o aggiunte sono solitamente identificabili ad occhio nudo per ragioni stilistiche, sono spesso confermate in occasione dei restauri, dove di norma i manufatti vengono smontati in tutte le loro parti per facilitarne la pulitura e il consolidamento: lo smontaggio di tutte la parti di cui è composto un oggetto, solitamente piede-fusto-teca, con le relative lamine aggiunte e le parti  realizzate a fusione, consente di identificare “l’intrusione” di materiali  e tecniche di assemblaggio diverse dall’originale, solitamente più poveri, quali ad esempio elementi in rame e saldature. Le alterazioni subite da un oggetto erano in antico legate sia a modifiche della funzione liturgica (il pezzo di San Mauro nasceva come ostensorio ed è divenuto stauroteca) che a cambiamenti di gusto, per cui sovente i pezzi venivano “ammodernati” con l’inserimento di parti o la rimozione di quelle considerate non più accettabili; solo alla fine del XIX secolo con l’inizio del collezionismo e la formazione dei primi musei, le modifiche sono state funzionali alla loro collocazione sul mercato antiquario, si sono spesso fatte modifiche “in stile”, rifacendo per esempio ex novo le parti ammalorate. Questo è il caso del pezzo del Poldi Pezzoli con l’anta rifatta  e di quello del Metropolitan con il fusto e le pigne ri-smaltati. Bisogna  fare una distinzione tra i cosiddetti restauri antichi ed ottocenteschi che sono per lo più alterazioni e rifacimenti, rispetto al restauro propriamente inteso oggi cioè come operazione di salvaguardia e conservazione dell’esistente. I due pezzi sopracitati hanno subito anche questo tipo di restauro benché, come si vedrà oltre, in epoche molto diverse. Il manufatto di San Mauro invece non è più stato toccato dalla sua trasformazione in reliquiario ed è tutto sommato in un discreto stato di conservazione, tenuto conto dell’estrema fragilità degli smalti. Risulta piuttosto instabile sul suo alto piedistallo, pendente su un lato come si vede dalle foto, poiché esso è composto da almeno tre parti assemblate, tabernacolo, nodo e base polilobata; probabilmente le antiche viti che lo tengono legato si sono allentate. Gli smalti che coronavano le pigne intorno alla teca e quelli della ghiera del nodo centrale sono quasi completamente perduti (Fig. 18) e questo evidenzia dal confronto fotografico la non congruità delle pigne del tabernacolo del Metropolitan Museum: qui gli stessi smalti appaiono tutti perfettamente integri ma non sono originali bensì frutto di un rifacimento ottocentesco, come lo è il nodo. È naturale che smalti en ronde bosse cioè su superfici a tutto tondo, per la loro intrinseca fragilità, siano più facilmente destinati a perdersi, in questo caso anche perché sono nella parte più aggettante, quindi esposta, del manufatto. Gli altri smalti, all’interno dell’edicola e sulle lastrine della base, sono decisamente ben conservati, ad eccezione di una piccola porzione caduta nella scena dell’ultima cena (Fig. 19) che però consente di notare l’incisione della sottostante lamina d’argento43. A proposito di lamine d’argento incise, il confronto diretto tra i tre manufatti permette di notare come il fondo azzurro dei cieli, nelle tre Crocifissioni, sia ancora una volta più ricco ed elaborato nel pezzo di San Mauro dove sotto lo smalto si intravede un tratteggio incrociato a losanghe molto ben definite ed ordinate; gli altri due fondi sono simili, con un tratteggio a linee parallele, verticali, più ordinato e simmetrico nell’esemplare americano rispetto a quello del Poldi Pezzoli. Gli smalti sul nodo di colore rosso sono in massima parte ben conservati eccetto uno (Fig. 20) che consente di vedere la superficie dorata della lamina, secondo la tecnica citata da Cellini.

Rispetto ai tre pezzi, sotto il profilo conservativo, quello del Metropolitan è sicuramento quello nelle peggiori condizioni di conservazione, mostrando (come da scheda, sopra) un diffuso degrado degli smalti all’interno dell’anta: i due santi raffigurati, San Sebastiano e San Girolamo sono sicuramente stati ulteriormente danneggiati a causa di un vecchio trattamento non documentato, di fine ‘800 o primi 900, in cui si era tentato di “fermare”il distacco degli smalti apponendo una sostanza proteica come collante/consolidante.  La sostanza stesa sugli smalti, di natura organica, è chimicamente incompatibile con i materiali vetro/metallo; alterandosi con l’invecchiamento naturale può essa stessa avere creato danno agli smalti. La superficie viene infatti  ritenuta dai curatori/restauratori non più recuperabile; è plausibile pensare che il danno sia partito dalla lamina metallica per i motivi spiegati sotto. Suppongo, dal colore e dalla consistenza, che il “consolidante” sia stato una colla animale o una gelatina, non esistendo all’epoca altri prodotti con la stessa funzione; essa in presenza di umidità (dentro lo sportello chiuso) è rimasta allo stato di mucillagine, (come ho testato personalmente al tempo del mio studio) scurendosi col tempo, formando una patina marrone, gelatinosa, che rende quasi illeggibile la superficie. Lo stesso è successo nei medaglioni con teste barbute, sulla base. Ai fini conservativi è importante che tali tipologie di oggetti siano mantenuti in ambienti con bassa umidità; quest’ultima, assieme ai danni antropici (urti meccanici) è il peggior nemico degli smalti in quanto favorendo l’ossidazione di alcune componenti del metallo, in particolare se in presenza di rame, favorisce la formazione di sali che sono prodotti di corrosione del metallo, tipicamente sotto forma  di grumi verdastri che esercitano una pressione sulle fragili lastrine di smalto facendole saltare.  Le lastrine di smalto, di per sé sono chimicamente inerti o quasi (dipende dalla composizione del vetro); la parziale perdita o disgregazione dello smalto è  prevalentemente dovuta all’alterazione delle lamine su cui sono stesi, legate a condizioni climatiche di conservazione non idonee. Non è un caso se il pezzo di San Mauro sia risultato apparentemente  in buone condizioni rispetto a questo aspetto: il clima particolarmente asciutto dal paese, che si trova a 1000 metri d’altezza,  ha  consentito la buona conservazione delle parti metalliche che  non risultano affatto ossidate, di conseguenza gli smalti non ne hanno risentito. Ad eccezione di alcune piccole cadute circolari  all’interno della centina sul lato della reliquia, che sono  infatti in prossimità di piccoli chiodi di collegamento delle lastrine nella struttura (le teste dei chiodi sono verosimilmente la causa delle perdite di smalto), e della lacuna nella lastrina dell’ultima cena, dovuta probabilmente a danni antropici, gli smalti sono incredibilmente ben conservati se rapportati agli altri due pezzi, e in generali ai manufatti smaltati di quel periodo.

Quanto alla funzione originaria dei tre oggetti, dal momento che la Crocifissione è l’unica scena presente su tutti e tre, che il pezzo del Poldi Pezzoli è oggi definito stauroteca, che il reliquiario di San Mauro reca in effetti un frammento della Vera Croce (con tanto di autentica papale), nonostante dalle fonti se ne parli come di un ostensorio, ritengo che anche il manufatto del Metropolitan sia nato come altarolo devozionale dedicato all’adorazione della croce. Avendo già evidenziato la possibile provenienza comune degli ultimi due pezzi per le stringenti similitudini della teca, seppure con una netta superiorità qualitativa del pezzo siciliano per ricchezza di materiali e decori,  è possibile ipotizzare che il pezzo newyorkese in origine possa avere avuto un piede simile e chissà forse anche smalti rossi.

  1. Trovandomi da alcuni anni a vivere in Sicilia per motivi familiari, ho avuto l’opportunità di esaminare un importante manufatto, che avevo già indirettamente citato come confronto nella tesi di laurea  dal titolo “Oreficeria Sacra Italiana del XV secolo al Metropolitan Museum of Art” del corso di Storia della Miniatura e delle Arti Minori, (1997) presso l’Università di Firenze, relatore Dora Liscia Bemporad. []
  2. S. BONETTI, Tesi Oreficeria Sacra Italiana del XV secolo al Metropolitan Museum of Art, cat. n. 6, consultabile presso Università degli Studi di Firenze e biblioteca OADI Palermo. []
  3. Cfr. tra gli altri J. G. PHILLIPS, Early Florentine designers and engravers  : Maso Finiguerra, Baccio Baldini, Antonio Pollaiuolo, Sandro Botticelli, Francesco Rosselli ; a comparative analysis of early Florentine nielli, intarsias, drawings and copperplate engravings.  Cambridge/Mass.,  Harvard University Press  1955; C.G.BUNT, A Florentine nielloed cross, in “The Burlington Magazine” , LXV,1934  pp.26-30; M. COLLARETA, A. CAPITANIO Oreficeria Sacra Italiana, Museo Nazionale del Bargello, Firenze 1991, pp.158-162; D. LISCIA BEMPORAD, a cura di, Argenti fiorentini dal XV al XIX secolo, tipologie e marchi, 3voll,Firenze, ed S.P.E.S 1992, vol 1; L. WHITAKER, Maso Finiguerra, Baccio Baldini and the Florentine picture chronicle in  Florentine drawing at the time of Lorenzo the Magnificent, pp181-196 1992; E. Fhay, Two suggestion for Verrocchio, in “Studi di Storia dell’Arte in onore di Mina Gregori,  Milano 1994, pp.53-55. []
  4. Per l’iconografia degli smalti lombardi si veda P. VENTURELLI Smaltisti milanesi intorno al 1500: fonti iconografiche. L’ ‘antico’, Mantegna e gli altri (tra Lombardia e Roma), in Mantegna e Roma. L’artista davanti all’antico, atti del convegno, Bulzoni editore 2010 e per  riferimenti precisi al reliquiario di San Mauro: P. VENTURELLI, Il reliquiario della Santa Croce di San Mauro Castelverde. Smalti e arte orafa milanese in Sicilia in “Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale”, Atti del Convegno Internazionale di Studi in onore di Maria Accascina, a cura di Maria Concetta Di Natale, Caltanissetta 2007 pp 174-185 dove l’autrice, partendo dallo studio dell’Accascina, indaga principalmente l’iconografia degli smalti, evidenziandone la vicinanza a modelli pittorici o della miniatura dei fine ‘400, di ambito leonardesco. In altra sede l’autrice lo accosta giustamente, per forma e struttura all’altarolo –reliquiario del Musée Massena a Nizza, inv.MAH-4078, in Oro dai Visconti agli Sforza-Smalti e oreficeria del Ducato di Milano, catalogo della mostra a cura di Paola Venturelli, Milano 2011, pp 240-241. []
  5. M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia dal XII al XIX secolo, Palermo 1974, pp 166-169. []
  6. E. STEINGRABER. Lombardisches Malermail un 1500 in Festschrift Wolfgang Bramfels, Tubinga 1977. []
  7. Gli innumerevoli articoli sul Giornale di Sicilia, in cui recensisce mostre e descrive opere e collezioni, sono stati raccolti da Maria Concetta Di Natale, Maria Accascina e il Giornale di Sicilia, Cultura tra Critica e Cronache a cura di M. C. Di Natale, 2 voll, Caltanissetta 2006. []
  8. Vedi articolo di Maria Accascina  “8 Agosto 1935- Nei Paesi delle Madonie. Cose Maurine viste e non viste” in Maria Accascina e il Giornale di Sicilia…a cura di M.C.Di Natale, pp196-199, in cui si evince anche che essa conosceva già attraverso fotografie fatte eseguire da Antonino Salinas (primo direttore del nuovo Museo Regionale siciliano dal 1878, a lui intitolato ed oggi museo archeologico), il contenuto della preziosa cassetta, e in particolare del reliquiario di cui aveva già prospettato l’origine lombarda. La notizia della prima fallimentare visita della studiosa è ancora nota tra gli anziani del paese. []
  9. P. VENTURELLI, Il reliquiario della Santa Croce.. ., 2007 p. 174. []
  10. M.G. AURIGEMMA, Maria Accascina tra tutela e architettura, in  “Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale”, Atti del Convegno Internazionale di Studi in onore di Maria Accascina, a cura di Maria Concetta Di Natale, Caltanissetta 2007, pp 336-349. []
  11. M.C. DI NATALE, Maria Accascina tra tutela…, 2007, p.45. []
  12. Il sig. Antonio Madonia, che ringrazio. []
  13. Nato a San Mauro nel 1890,  medico condotto a Ravenna fino al 1960. []
  14. Mi è stata donata in occasione di una visita a San Mauro nell’Aprile del 2012,  dal Vicesindaco del paese Dott. Giovanni Nicolosi. []
  15. G.TRAVAGLIATO Su Vincenzo Greco e ‘ l’arte’ applicata alle reliquie tra Roma e la Sicilia nel’600 in “Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale”, Atti del Convegno Internazionale di Studi in onore di Maria Accascina, a cura di Maria Concetta Di Natale, Caltanissetta 2007 pp.409-413. []
  16. Tradizioni, e Memorie…1997,  p.34. []
  17. Per una storia delle reliquie della passione di Cristo, e in particolare sul legno della croce, M. HEISEMANN, Testimoni del Golgota  le reliquie della passione di Gesu’, Milano (Cinisello Balsamo) 2003, pp.41-93. Ringrazio Don Marco Salvi per l’indicazione. []
  18. Tradizioni, e Memorie…, 1997, p.105. []
  19. Ibidem, p.32. []
  20. Supra,  nota 15. []
  21. Ibidem,  p. 35. []
  22. M. HEISEMANN, Testimoni…. 2003, p.63. []
  23. Per il tabernacolo del Metropolitan risalgono alla mia tesi, non ne esistevano a colori. Ringrazio il dipartimento ESDA, Yassana Croizat-Glazer e Claire Vincent per la costante collaborazione. Per il reliquiario siciliano esistevano solo le foto a colori fatte da Enzo Brai, ma lo studio è stato l’occasione per effettuarne di nuove, con numerosi dettagli. Sono state effettuate con l’aiuto della collega Alessandra Buccheri che ringrazio, e per gentile autorizzazione da parte del parroco Don Giuseppe Amato. Va sottolineata l’estrema difficoltà nel fotografare oggetti smaltati in quanto la superficie è riflettente come un vetro, è pertanto impossibile, in assenza di attrezzature specifiche, prendere foto frontali. []
  24. Ringrazio per questo la direttrice D.ssa Annalisa Zanni, il Dr. Andrea di Lorenzo e la Dr.ssa Erika Iotta. []
  25. Cfr.  P.VENTURELLI Leonardo e le arti preziose. Milano tra XV e XVI secolo, Marsilio 2002;  Esmaillé à la façon de Milan. Smalti nel Ducato di Milano da Bernabò Visconti a Ludovico il Moro, Marsilio 2008;  Smaltisti milanesi intorno al 1500: fonti iconografiche. L’ ‘antico’, Mantegna e gli altri (tra Lombardia e Roma), in Mantegna e Roma. L’artista davanti all’antico, atti del convegno, Bulzoni editore 2010. []
  26. In mancanza di una vera e propria scheda di catalogo, vista l’impostazione “discorsiva” del libro dell’Accascina e anche dei testi della Venturelli, è stato da me personalmente misurato in occasione delle riprese fotografiche qui riportate. []
  27. P. VENTURELLI, Il reliquiario della Santa Croce… Caltanissetta 2007 p.181. []
  28. E. STEINGRABER, Lombardisches Malermail un 1500 in Festschrift Wolfgang Bramfels, Tubinga 1977 pp.371-387. []
  29. F. MALAGUZZI VALERI, La Corte di Ludovico il Moro, 4 voll, Milano, 1913-1923, vol 3, pp. 306-310. []
  30. Cfr. L’Oro e la Porpora Le arti a Lodi nel tempo del Vescovo Pallavicino (1456-1497)” catalogo della mostra di Lodi del 1998 pp. 205-209. []
  31. M. COLLARETA, Introduzione al Catalogo Basilica del Santo. Le Oreficerie, a cura di M. Collareta, G. Mariani Canova, A.M. Spiazzi, Padova-Roma  1995. []
  32. L’Oro e la Porpora Le arti a Lodi nel tempo del Vescovo Pallavicino (1456-1497)” tenutasi a Lodi nel 1998 ad opera della regione Lombardia, fino alla recente mostra Oro dai Visconti agli Sforza-Smalti e oreficeria del Ducato di Milano, curata da Paola Venturelli per il Museo Diocesano di Milano, del 2011. []
  33. S. BONETTI, Tesi…cat. n.4. []
  34. Cfr.  Oreficerie ed orologi, Museo Poldi Pezzoli, catalogo a cura di U. Gregorietti, Milano 1981, cat.213, pag. 294. []
  35. Cfr. scheda dell’oggetto a cura di Annalisa Zanni,  v. nota 29. []
  36. Cfr. Fatti come Nuovi, catalogo della mostra, a cura di A. Balboni Brizza, A. Mottola Molfino, A.Zanni, Milano, ottobre 1985-gennaio 1986, cat.50, pag.122. []
  37. In un capitolo dedicato agli smalti: Dello smaltare; B. CELLINI,Opere, a cura di Bruno Maier, Milano 1968, pag. 651. []
  38. P. VENTURELLI, Leonardo e le arti preziose. Milano tra XV e XVI secolo, Marsilio 2002;  Esmaillé à la façon de Milan. Smalti nel Ducato di Milano da Bernabò Visconti a Ludovico il Moro, Marsilio 2008; “Con bel smalto et oro”.Oreficerie del Ducato di Milano tra Visconti e Sforza, catalogo della mostra Oro dai Visconti agli Sforza. Smalti e oreficerie nel Ducato di Milano, a cura di Paola Venturelli, Milano 2011, pp 31-61. []
  39. M. VERITA’ Tessere vitree del battistero Neoniano: tecniche e provenienza in Il Battistero Neoniano, uno sguardo attraverso il restauro a cura di Cetty Muscolino, Antonella Ranaldi e Claudia Tedeschi, Ravenna 2011, pp.73-83. []
  40. Diversi punti di fusione o temperature non controllate avrebbero potuto creare la fusione di smalti già induriti sulla superficie ed il loro scorrere su altre parti, come spiega efficacemente il Cellini. Mediante l’aggiunta di fondenti, come carbonati di sodio o di potassio, presenti in alcuni tipi di ceneri di piante, si poteva abbassare il punto di fusione della matrice silicea, principale componente del vetro, quindi cercare di controllarne la temperatura di fusione. []
  41. P.BENSI, Materiali costitutivi e procedimenti esecutivi degli smalti italiani del XIV e XV secolo; catalogo della mostra Oro dai Visconti agli Sforza. Smalti e oreficerie nel Ducatro di Milano, a cura di Paola Venturelli, Milano 2011, pp 87-95. []
  42. Ibidem, p.89. Le due fotografie riportate da Paolo Bensi dell’interno del piede mostrano una stesura di smalto traslucido verde, in parte caduto. []
  43. Presentato per la prima volta da Enrico Mauceri sulle pagine de L’Arte, v.nota 9, le foto gli furono fornite dal console britannico in Sicilia, Churchill, egli stesso collezionista ed amatore;   pur se in bianco e nero, dal confronto tra tali foto e le attuali si evince che la piccola lacuna che già allora interessava l’angolo in lato a sinistra si è almeno raddoppiata; cfr E.MAUCERI Notizie di Sicilia in L’Arte, Corrieri, pag. 62-64, 1907. []