Manlio Leo Mezzacasa

manlioleomezzacasa@hotmail.it

Appunti sulla produzione di croci astili nell’Alto Adriatico tra età gotica e Rinascimento

DOI: 10.7431/RIV06012012

Gli aspetti tecnico-materiale e artigianale-produttivo di un manufatto sono, al pari dell’iconografia e dello stile, impronta della mentalità e della cultura che quello stesso manufatto ha ideato e concepito. A dispetto di ciò, queste chiavi di lettura sono le meno frequentate nell’indagine sulla produzione artistica medievale. Esse si rivelano particolarmente fruttuose nel campo dell’oreficeria, e nel caso specifico che qui si vuole affrontare – quello della produzione seriale per matrici1 –  sono estremamente utili al fine di  illuminarne la peculiarità. Oggetto dell’intervento che segue sono alcuni gruppi di croci astili, una tipologia di manufatto liturgico che, salvo i casi di straordinaria rilevanza e complessità, fatica a trovare uno spazio maggiore di quello concesso a una scheda di catalogo.

Più che un’analisi della pura tecnica, appropriata all’esame dettagliato delle modalità esecutive di un singolo pezzo, cercherò qui di fornire alcuni dati utili a tracciare le coordinate di uno schema produttivo. L’intento di questo intervento è ribadire quanto rilevante sia stata, non solo in termini quantitativi, la produzione seriale di croci astili tardo medievali in un determinato territorio, l’Alto Adriatico, in particolare Veneto, Friuli e Dalmazia, dove si registra un’imponente presenza di tale tipologia di oggetti. Passando in rassegna alcuni casi paradigmatici, in parte già noti alla letteratura specialistica, si metteranno in risalto l’entità e la vastità geografica della produzione e disseminazione di tali manufatti, oltre a sottolineare alcuni dati che riflettono la forma mentis sottesa della concezione dell’opera.

Uno spazio a parte andrebbe dedicato al ruolo che questa produzione, talvolta detta minore per la qualità piuttosto corsiva di molti pezzi, ha nel recepire e veicolare motivi ornamentali. Un esempio concreto è offerto da un’oreficeria di pregio, il Reliquiario del dito di sant’Antonio nella Basilica del Santo di Padova. Per la realizzazione dell’aureola della statuetta porta reliquie è stato utilizzato un motivo che si ritrova in tutto e per tutto simile in una cornice ornamentale impiegata in alcune opere d’oreficeria del Tesoro di Grado2. È probabile che l’orefice del reliquiario antoniano fosse stato in possesso di una di tali cornici da cui per l’appunto ha preso a modello il motivo poi riproposto (Fig. 1). Realizzate a sbalzo e in gran quantità e varietà, tali cornici ornamentali erano impiegate a rivestire lo spessore delle croci astili metalliche che passiamo ora a osservare nel concreto.

Un caso recentemente studiato dallo scrivente ha preso in considerazione un gruppo di cinque croci, conservate tra Padova l’Alto Bellunese e il Trentino, tra loro connesse dall’uso di matrici comuni3. Queste sono poste in relazione a manufatti coevi a cui si legano per ragioni di contiguità formale-iconografica all’interno di un processo di sviluppo stilistico. Lo studio mette in luce anche alcuni aspetti pratici, quali l’utilizzo prolungato dei medesimi stampi e le modalità con cui gli l’artefice o artefici sopperiscono alla perdita di alcune matrici. È discussa inoltre la possibilità che una bottega impieghi nella realizzazione di un manufatto elementi forniti da terzi che, ai nostri occhi possono risultare poco coerenti all’insieme. La difformità stilistica o formale tra le parti è, del resto, un concetto che il più delle volte riguarda solo l’osservatore moderno, laddove invece ai contemporanei premevano principalmente la coerenza iconografica e la funzionalità del manufatto.

Una peculiarità di questo gruppo è la possibilità di determinare con certezza che per tutte le croci sono state impiegate le medesime forme per lo stampaggio. Questo grazie all’analisi autoptica dei pezzi che ha permesso di individuare in tutti gli angeli delle croci una medesima imperfezione imputabile allo stato della matrice. Un fatto piuttosto raro se consideriamo la scarsa leggibilità di molti manufatti simili, dovute alle precarie condizioni di conservazione favorite dalla sottigliezza dello sbalzo e dalle ridotte dimensioni dei manufatti.

Seguendo un secondo caso, ben studiato da Nikola Jakšić, si osserva come la diffusione di tali manufatti possa essere correlata a una notevole vastità territoriale4. Lo studioso analizza un corpus di sedici esemplari distribuiti tra l’arco Alpino e la Dalmazia. Il caso è particolarmente interessante anche per il fatto che non tutti condividono in toto i medesimi modelli, ovverosia essi di differenziano per alcune parti. Laddove nove sono apparentati per la tipologia del Crocifisso, altri quattro ne seguono una diversa. Quattro anche le croci che condividono il tipo di Vergine orante collocata sul verso. Il denominatore comune per il maggior numero di manufatti è però costituito dal Tetramorfo, condiviso da undici croci e un reliquiario. Dieci sono poi i manufatti che impiegano il medesimo modello di Dolenti e figure angeliche. Particolarmente significativo quest’ultimo dato perché fornisce indicazioni precise sulla durata storica dell’impiego di un modello. La tipologia di figure dolenti che troviamo su questi manufatti, alcuni dei quali sono databili con buona probabilità alla fine del XIV secolo, è presente già in una legatura di Evangeliario conservata a Treviso e datata prima del 12725. Grossomodo altrettanto antica è un’altra croce – finora sfuggita alla ricognizione ma da accorpare a questo corpus – conservata a Castel del Giudice (IS) (Fig. 2), località non lontana da Sulmona, a sua volta sede nel Duecento di una floridissima produzione di croci astili metalliche6. A queste vanno  aggiunte alcune placche conservate all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston7 e infine una croce di collezione privata milanese8. Quest’ultima è particolarmente significativa ai termini del mio discorso in quanto da una parte è strettissimamente legata ai manufatti appena menzionati, dall’altra mostra di non essere stata realizzata con le medesime matrici ma piuttosto con forme che a quelle si rifanno con gran precisione. Si nota in esse un lieve scarto stilistico nei termini di una maggior espressività e, in particolare nella figura dell’angelo, maggior naturalismo. Siamo di fronte a un dato, quello dell’aggiornamento di un prototipo più arcaico già riscontrato nel primo corpus e che vedremo essere ancor più rilevante nel gruppo che presenterò in seguito.

È significativo poi che i manufatti di questi tre corpora, nella grande maggioranza dei casi, siano conservati in zone non propriamente ricche, talvolta addirittura svantaggiate o comunque decentrate, dove giocoforza le probabilità che materiali ormai “fuori moda” vengano preservati, per il minor interesse verso certe novità come pure per la maggior difficoltà di procurarsi oggetti più recenti o di gusto aggiornato.

È evidente la forte persistenza dei medesimi modelli e anche l’intercambiabilità, per così dire, di alcuni di essi. Ciò che è difficile stabilire in questo gruppo è dove sono state utilizzate le medesime matrici e dove all’identità di strumento si sostituisca una più generica somiglianza. Domande queste tanto più cogenti e pressanti quando si affronta lo studio del terzo gruppo di opere, genericamente definito veneto-friulano. È il più esteso ma mai sistematicamente analizzato sebbene alcuni esemplari di questo furono il soggetto del primo intervento specificatamente destinato allo studio della produzione per matrici9. Il gruppo impressiona per la vastità numerica degli esemplari, che si contano a decine, concentrati prevalentemente in area friulana. Una trentina quelli conservati nella sola provincia di Udine, che ne ospita due anche al Museo Civico, e numerosi altri sono distribuiti nel resto del Friuli Venezia-Giulia e in Veneto, da Pordenone, il cui museo diocesano ne custodisce tre esemplari10, a Còrmons a Venezia.  Coordinate geografiche e amministrative, queste, che non rispecchiano la situazione geo-politica dell’epoca di realizzazione dei manufatti, nella quale la principale entità politico-amministrativa – peraltro in buona parte coincidente con il territorio maggiormente interessato – era il Patriarcato di Aquileia, che in alcuni periodi giunse a estendersi fino a comprendere i territori di Carinzia, Istria e Carniola11. E qui è opportuno aggiungere che non sono solo le chiese e le collezioni dell’attuale Triveneto a ospitare i manufatti in questione. Infatti ve ne sono anche in territori che oggi afferiscono agli stati croato12, sloveno13 e austriaco14. Non si possono tralasciare poi i materiali preservati presso importanti istituzioni museali straniere, quali il Bayerisches Nationalmuseum di Monaco (inv. MA 2485) e il Victoria&Albert Museum di Londra (inv. m.8-1951) (Fig. 3), e quelli, non pochi ma il cui numero preciso è impossibile stimare,  presenti in collezioni private.

Come accennato più sopra, a una prima analisi di questo amplissimo gruppo non è possibile stabilire quanti e quali di questi manufatti siano stati eseguiti con le medesime matrici. C’è tuttavia un dato che emerge oltre la constatazione della disparità qualitativa tra gli uni e gli altri, la quale è difficile determinare in quale grado sia dovuta al diverso stato di conservazione. Mi riferisco alla presenza di diverse varianti che alla prova dei fatti causano uno sgretolamento della compattezza del gruppo, quale si potrebbe avere un primo sguardo. È una situazione più complessa e intricata di quella che emerge negli altri due corpus –  nei quali pure, si è visto, vi sono dei sottogruppi – dovuta sia al numero di esemplari che al tipo di varianti.  In alcuni pezzi queste si danno nella forma di una particolare ricercatezza nell’esecuzione, in altri si possono definire come aggiornamento, più o meno lieve, stilistico-formale dei modelli e in altre ancora vi sono invece vere e proprie differenze formali.

Osserviamo ora nello specifico. È possibile riunire la maggior parte dei manufatti per l’utilizzo del medesimo modello di Christus patiens. Un Cristo d’aspetto pienamente trecentesco, colto quasi di tre quarti e cinto in vita da un affilato panneggio dall’aguzzo svolazzo laterale che sembra rifarsi (e il riferimento non è casuale visto il contesto geografico) al Vitale da Bologna della Crocifissione Thyssen-Bornesmiza di Madrid. Lo definiremo Cristo Tipo A (Fig. 4).

Alcune croci poi condividono l’immagine centrale del verso. Compare infatti con grande frequenza la figura di Cristo rappresentato stante mentre benedice con la destra e regge il Libro con la sinistra. Così, tra le altre, nelle croci di Zuglio, Colloredo di Monte Albano, Rivignano Sella, in una delle croci del Castello Sforzesco e in quella del Victoria&Albert (Fig. 5). Forse ancor più diffusa è la figura di Cristo in trono benedicente con la mano posta di fronte al petto, che definiremo Maiestas Tipo A (Fig. 6a).

La variazione intesa in termini di aggiornamento stilistico è ben visibile nella croce della chiesa di San Pietro Martire a Udine, sicuramente una di quelle la cui cronologia si addentra maggiormente nel Quattrocento: fatto che sembra comprovato dalla caratteristica tecnica per cui le figure sbalzate sono realizzate su una lamina diversa da quella che costituisce il fondo. Se confrontiamo questa croce con la consimile proveniente da San Pietro di Carnia a Zuglio, alla prima molto vicina per la presenza di un nodo architettonico e per la qualità più scultorea dei rilievi, vedremo chiaramente che il Cristo della croce di Udine si pone in rapporto all’altro come un aggiornamento stilistico-formale del medesimo modello. Postura, proporzioni e aspetto del corpo coincidono, ma il più recente offre un panneggio modulato e vivace ben più naturalistico del rigido e schematico prototipo, e rispetto al precedente il volto di Cristo è caratterizzato da una fluente barba e da ciocche madide che stupiscono per il grado di perizia e naturalismo. Definiremo questo modello aggiornato come Tipo A115 (Fig. 4c).

Inoltre è possibile individuare un terzo tipo di Christus patiens, che si differenzia lievemente dal tipo A. Più che uno scarto stilistico, comunque presente e rivolto a una maggior “goticizzazione” della figura, dalla postura più espressiva al perizoma più dinamicamente sviluppato, vi si può leggere una variante formale, che comporta peraltro dimensioni maggiori. Lo definiremo pertanto Tipo B (Fig. 4d). È il modello che si ritrova, ad esempio, nella croce di Baseglia, frazione di Spilimbergo, e , così credo, nella già citata croce di Kalgenfurt16 e in una di collezione privata milanese17, e che potrebbe essere alla base dell’interpretazione aggiornata di un esemplare conservato ad Ovaro Clavais e forse persino di quella già Rinascimentale che ne dà la bottega di Nicolò Lionello nella croce del Tesoro di Gemona18.

Vi è la possibilità, che qui si offre solo come ipotesi di lavoro, che il Cristo di tipo B nasca per un diverso gruppo di croci, numericamente più ridotto che si differenzia dalla maggioranza delle croci per un diverso modello di Dolenti (Fig. 7b) e delle altre figure che li accompagnano. Queste varianti di Cristo e dei Dolenti di Tipo B si trovano affiancati negli esemplari di Baseglia19, Arta Terme, Teor frazione Driolassa,  Illegio frazione di Tolmezzo, e una croce pervenuta all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston20. A questo sottogruppo è forse possibile correlare una versione, quantitativamente minoritaria del Cristo in trono all’incrocio dei bracci del verso, ovverosia quella che definiremo Maiestas B in cui Cristo sporge oltre la propria figura il braccio benedicente21 (Fig. 6b).

L’ultima variante riguarda i simboli degli evangelisti. L’assoluta maggioranza delle croci adotta il medesimo modello di Tetramorfo, quello, per fornire un esempio, delle croci del Museo Diocesano di Pordenone o del Castello Sforzesco di Milano (Fig. 8a). Un secondo gruppo si ritrova nella croce di Baseglia e sembra essere coerente a tutti gli elementi di tipo B che in essa si ritrovano, e pertanto lo definiremo Tetramorfo B (Fig. 8b). Infine vi è un terzo gruppo del Tetramorfo, quello che si ritrova ad esempio nella croce attribuita alla bottega di Nicolò Lionello a Zuglio22. È possibile definirlo come una crasi tra il naturalismo del gruppo A e l’espressività gotica del gruppo B, e lo etichetteremo come Tetramorfo C (Fig. 8c).

Al termine di questa disamina si appura che diversi manufatti si pongono come ibridazioni dei diversi gruppi, e non tutti sembrano essere tali per via di impropri restauri e rimontaggi. Se alcuni sono sicuramente dei pastiches, altri, e direi la più parte, sono realizzati fin dall’origine come incrocio di matrici. La croce della chiesa di San Giovanni Battista a Sedegliano, frazione Redenzicco, potrebbe essere una di queste. E forse anche il Cristo di tipo B presente sulla croce di Polcenigo23 (ora al Museo Diocesano di Pordenone), la quale è per il resto interamente riconducibile alla tipologia A, potrebbe non essere un’interpolazione.

Vengono così a riproporsi le questioni principali, già altre volte sollevate e alle quali non è possibile dare risposte precise e univoche, ma sulle quali vale ancora la pena di sviluppare delle riflessioni. C’è ancora da chiedersi se i manufatti circolassero solo come prodotti finiti o era altresì possibile un commercio delle singole piastre metalliche. Sarebbe interessante capire quali processi seguivano la produzione e la diffusione della matrici, strumenti assai preziosi, come si evince da questo intervento24. Mi domando inoltre se erano solo ragioni di economia produttiva che portavano ad aggiornare un modello noto invece che crearne un altro ex novo, come si è visto avvenire in più di un caso, o se invece l’aderenza alla tradizione è un valore che già allora era riconosciuto a questi oggetti, perfetti rappresentanti del conservatorismo consueto all’arte liturgica.

In questo intervento ho volutamente tralasciato l’analisi stilistica, fatte salve poche note necessarie, per affermare che casi di studio come quelli qui presentati e quelli che, dobbiamo sperare, verranno, non vogliono e non possono essere un esercizio di studio formale fine a se stesso, ma mirano a raccogliere dati e informazioni nel tentativo di comprendere le modalità operative e la cultura materiale degli artifices che tali prodotti realizzavano. C’è da augurarsi che anche la ricerca documentaria da e le informazioni che si possono raccogliere nel corso dei restauri convergano sempre più nell’aiutare a illuminare questa parte della produzione orafa medievale.

  1. Ringrazio sentitamente Giovanna Baldissin Molli, Nikola Jakšić e Luca Mor per i preziosi consigli e i suggerimenti. Il primo accenno alla produzione seriale di tramite l’utilizzo di matrici è in Toesca che ne sottolinea la rilevanza per il contesto artistico veneziano. P. Toesca, Storia dell’Arte Italiana. Il Medioevo, 2 voll., Torino 1927, pp. 1146-47. Per un’introduzione alla tecnica nel caso specifico si veda V. Talland, Techniques and Materials of Metal Crucifixes, in The Art of the Cross. Medieval & Renaissance Piety in the Isabella Stewart Gardner Museum, Catalogo della mostra di Boston 2001 a cura di A. Chong et al., Boston 2001, pp. 47-51. Per uno sguardo più generale sulla produzione seriale di opere d’arte si veda, come introduzione, M. Tomasi, L’art multiplié: matériaux et problèms pour une réflexion, in M. Tomasi e S. Utz, L’art multiplié. Production de masse, en série, pour le marché dans les arts entre Moyen Âge et Renaissance, Roma 2011, pp. 7-24. Merita di essere menzionato per la singolarità l’interessante caso studiato da Z. Murat, Leather manufacturing and circulating models in the Middle Ages: from a Byzantine patena in Halberstadt to a Veneto-Cretan Icon in Ljubljana, “Zbornik”, 67, 2011, pp. 75-97. []
  2. Il caso è menzionato in M. L. Mezzacasa, ‘Capsellae’ secolari e liturgiche nell’Alto Adriatico. 1150-1400 ca, Tesi di Laurea Magistrale in Storia dell’Arte, Relatrice G. Valenzano, Correlatrice G. Baldissin Molli, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2010/2011; Sulla capsella dei Santi Ermacora e Fortunato Cfr. Luisa Crusvar, Il tesoro di Grado, in Ori e Tesori d’Europa. Atti del Convegno di studio, Castello di Udine, 3-4-5 dicembre 1991, a cura di G. Bergamini e P. Goi, Udine 1992, pp. 150-153.  Ulteriori considerazioni sono in M. L. Mezzacasa, ‘Capsellae’ secolari e liturgiche… 2010/2011; Per il reliquiario antoniano Cfr. M. Collareta, Cat. 13, in M. Collareta, G. Mariani Canova e A.M. Spiazzi, La Basilica del Santo. Le oreficerie, Roma 1995, pp. 98-99. []
  3. Lo studio di prossima pubblicazione prende il via dai materiali – successivamente ampliati e rivisti – studiati dallo scrivente nel 2008 in per la stesura della tesi di Laurea Triennale in Beni Culturali, La croce astile della Parrocchiale di Goima di Zoldo Alto (BL), Relatrice G. Baldissin Molli, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2008/2009. []
  4. N. Jakšić, Rapporti veneto-dalmati nell’oreficeria trecentesca, in Književnost, umjetnost, kultura između dviju obala Jadrana / Letteratura, arte, cultura, tra le due sponde dell’Adriatico, Atti della giornata di studi di Zara, a cura di N. Balić Nižić, N. Jakšić, Z. Nižić, Zadar 2010, pp. 299-327. []
  5. G. Delfini Filippi, Cat. 107, in A. M. Spiazzi (a cura di), Oreficeria Sacra in Veneto. Vol. I. Secoli VI-XV, Cittadella 2006, p. 191-193. []
  6. A proposito si veda S. De Meis e O. Zastrow, Un nuovo gruppo di croci sulmonesi arcaiche, Sulmona 1976. La croce è pubblicata da Franco Valente nel sito https://www.francovalente.it/2010/01/27/la-croce-astile-di-castel-del-giudice-un-capolavoro-sconosciuto/, con un’indicazione all’ambito abruzzese. []
  7. G. De Appolonia, Cat. 3, in The Art of the Cross 2001, p. 64. []
  8. O. Zastrow, Croci e Crocifissi. Tesori dall’VIII al XIX, Milano 2009, Cat. XXV, pp. 169-175. []
  9. Mi riferisco agli esemplari del Castello Sforzesco di Milano studiati da Oleg Zastrow nel meritorio articolo, Annotazioni sulla tecnica del produrre per matrici metalliche in alcuni crocefissi tardomedievali in Lombardia, in “Rassegna di studi e di notizie”, vol.VI – anno V, Milano, 1978 (Parte prima) e vol.VII – Anno VI, 1979 (Parte seconda). I materiali presi in considerazione nell’articolo qui citato venivano ricondotti a un sottogruppo lombardo sulla scorta di alcune considerazioni, riproposte recentemente dallo stesso autore: Croci e Crocifissi. Tesori dall’VIII al XIX, Milano 2009, Cat. XIII, pp. 99-104. Lo studioso infatti vi riconosce «desinenze lombarde» e un «addolcimento delle immagini». Tale suddivisione territoriale sulla base di considerazioni stilistiche quantomeno flebili non può, a mio modo di vedere, che essere respinta. Si vedano inoltre la ben fatta scheda di catalogo di Robert Wlattnig, Cat. 155, in Il Gotico nelle Alpi. 1350-1450, Catalogo della mostra di Trento a cura di E. Castelnuovo e F. De Gramatica, Trento 2002, pp. 788-789, e il testo di Letizia Caselli, Croci processionali tra Livenza e Tagliamento. Un’introduzione, in  In Hoc Signo. Il Tesoro delle Croci, Catalogo della mostra a cura di Pordenone e Portogruaro a cura di P. Goi, Milano 2006, pp. 129-135. []
  10. L.Caselli, Cat. II.29, II.30, II.31, in In Hoc Signo…, 2006, pp. 445-447. []
  11. Per una primo avvicinamento allo studio della produzione artistica nel Patriarcato di Aquileia, con utili interventi di carattere storiografico si veda il catalogo della mostra I Patriarchi. Quindici secoli di civiltà fra l’Adriatico e l’Europa, catalogo della mostra di Aquileia a cura di G. Bergamini e S. Tavano, Milano 2000. []
  12. Uno di queste è conservata presso l’Esposizione permanente d’Arte Sacra, Ori e Argenti di Zara, per la quale di vedano Nikola Jakšić e Radoslav Tomic (a cura di), Umjetniča Baština Zadarske Nadbiskupije. Zlatarstvo, Zadar 2004. Ringrazio inoltre il Prof. Nikola Jakšić per avermi segnalato anche il manufatto conservato in una chiesa parrocchiale nei pressi di Dubrovnik. []
  13. Manufatti provenienti dalle località di Hrastovlje e Obrh sono conservati oggi presso il Narodni muzej di Lubiana Cfr., Cat. 2.1.23, in Gotika v Sloveniji. Svet predmetov, catalogo della mostra di Lubiana a cura di M. Lozar Stamcar, Ljubljana 1995, p. 302 []
  14. Klagenfurt, Landmuseum proviente da una chiesa di Podlanig presso St. Lorenz im Lesachtal. Cfr. R. Wlatting, Cat. 155, in Il Gotico nelle Alpi…, 2002, pp. 788-789 che ne segnala altre tre che purtroppo non mi è stato possibile vedere neanche attraverso riproduzioni fotografiche. Nelle località di Irschen, Seckau e Finstergrün. Appartiene sicuramente a questo gruppo anche la Croce dal Diözesanmuseum di Vienna, Cat. 168, in Schatz und Schiksal, catalogo della mostra a cura di O. Fraydenegg-Monzello, Graz 1996. []
  15. Le croci che adottano la matrice più antica sono sicuramente in numero maggiore. Alla tipologia per così dire aggiornata afferiscono le croci di Comeglian Tualis (San Vincenzo Martire), Prato Carnico frazione Pesaris (Santi Filippo e Giacomo), Preone (San Giorgio Martire), forse Sedigliano Turra (San Martino Vescovo), Tolmezzo Cadunea (San Tommaso Apostolo), Tolmezzo Illegio (San Floriano Martire), Udine (San Quirino Vescovo e Martire), tutte in provincia di Udine, e una croce del museo diocesano di Pordenone ora a Pradipozzo. []
  16. Nel suo intervento dedicato alla croce R. Wlattnig (Cat. 155…, in Il Gotico nelle Alpi…, 2002, pp. 788-789) ritiene che il cristo non appartenga alla sua configurazione originale ma lo dice tratto da una croce di ispirazione nordica e lo data al 1360-80. A mio modo di vedere esso appartiene a una croce del corpus e potrebbe persino essere l’originale così ridotto a una ricollocazione delle lamine su nuovo supporto. Wlattnig non accenna al fatto che le figure dei Dolenti appaiano specchiate rispetto al modello, e così anche le figure di Cristo. Se ciò dipendesse dalla croce e non dallo specchiamento dell’immagine riprodotta a catalogo sarebbe un dato interessante su cui riflettere. []
  17. O. Zastrow, Croci e Crocifissi…, 2009, pp. 99-104. Tuttavia in questa croce la figura sbalzata di Cristo, forse per l’usura, appare semplificata. []
  18. Gli altri esemplari con questo Tipo B si trovano a Sedigliano in frazione Redenzicco e Teor Driolassa; Per la croce di Gemona Cfr. G. Ganzer, Il Tesoro del Duomo di Gemona, Gemona 1985. []
  19. Che già L. Caselli (Cat. II.30, in In Hoc Signo…, 2006, pp. 445-446) riconosce come espressione di un gruppo a parte associandola alla croce dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston e a un esemplare del Museo di Storia e Arte di Trieste, che invece non mi è stato possibile esaminare direttamente. []
  20. G. De Appolonia, Cat. 6, in The Art of the Cross…, 2001, pp. 66-68. []
  21. La Maiestas della croce di Boston si differenzia da entrambi i modelli perché tiene il braccio benedicente rasente il fianco destro. []
  22. Zuglio Cfr. C. Gaberscek, Cat. II.19, in Ori e Tesori d’Europa, Catalogo della mostra di Passariano a cura di G. Bergamini, Milano 1992, pp. 72-73. []
  23. L’aderenza del Christus patiens al tipo di Baseglia fu notata già da L. Caselli, Cat. II.29, in In Hoc Signo…, 2006, p. 445. []
  24. Utili menzioni si trovano in Ori e Tesori d’Europa. Dizionario degli orefici e degli argentieri del Friuli-Venezia Giulia, a cura di G. Bergamini e P. Goi, Udine 1992.  Nel 1417 Domenico Brunacci di Venuto lascia a Nicolò q. Lionello gli strumenti per saggiare le monete e a Stefano q. Martino della Burgulina gli stampi per le croci e i punzoni per i sigilli (p. 99).  Simile è il caso (1422) dell’orefice Nicolò, zio del più celebre Nicolò Lionello  a cui lascia in eredità attrezzi del mestiere tra i quali anche stampi per fare le figure (p. 211). È possibile che quest e matrici per fare le croci siano le forme del plumbeo che nell’inventario dei beni (1387) di Giovanni detto Sibello di Lorenzo di Cividale vengono annoverate subito dopo i punzones de fero (p. 175), citati in G. Bergamini (a cura di), Storia dell’Oreficeria in Friuli, Milano 2008, pp. 60-61. []