Dora Liscia Bemporad

lisciad@unifi.it

Gli smalti del ‘400 nell’Altare d’argento del Battistero di Firenze

DOI: 10.7431/RIV05032012

Parlare di smalti nella Firenze della seconda metà del Quattrocento è impresa ardua e, forse per questo motivo, la galleria pittorica dell’altare di San Giovanni a Firenze non è stato ancora compiutamente affrontato. Anzi, il recente restauro, durato oltre sei anni, ha posto più problemi di quanti non ne abbia risolti, sia per quanto riguarda il complesso della struttura e la successone degli interventi, sia per quanto riguarda gli autori. Abbiamo nomi che sono stati certificati attraverso gli spogli dei documenti compiuti dal senatore Carlo Strozzi, che affrontò l’immenso lavoro fino al 1670, anno della sua morte, e che hanno conservato numerose memorie, le uniche rimaste dopo il devastante incendio che distrusse l’archivio di Calmala. Questa era l’arte che raccoglieva i mercanti, una delle più potenti a Firenze, e che in virtù della sua ricchezza e della sua forza politica poté detenere il patronato del Battistero fin dalla prima metà dell’undicesimo secolo.

I nomi di orafi che ci sono giunti a partire dal 1367, anno di inizio dei lavori, non sono mai stati distribuiti tra i distinti compiti che un cantiere di così vaste dimensioni ovviamente prevedeva1. Degli artisti che si sono succeduti, alcuni sono assai noti, altri privi di una benché minima fisionomia sia dal punto di vista biografico, sia dal punto di vista stilistico, fatto che rappresenta un ulteriore ostacolo per una identificazione corretta delle mani. Coloro ai quali inizialmente è stato commissionata l’allogagione sono semplicemente dei nomi a cui non possiamo accostare alcuna opera oltre a poche e marginali notizie. In particolare rimpiangiamo di non possedere una biografia minimamente esauriente su Leonardo di ser Giovanni, Betto di Geri, Michele di Monte e Cristofano di Paolo; solamente il primo, che ha lavorato anche per l’altare argenteo di San Jacopo a Pistoia, può vantare una fortuna critica che lo ha visto formato all’interno della cultura orcagnesca che ha permeato l’arte fiorentina dopo la metà del secolo XIV.

La prima fase dell’esecuzione dell’altare di San Giovanni si concluse alla fine Trecento. Sicuramente erano state eseguite le otto formelle della facciata anteriore con le storie del Battista, che narrano gli episodi dal momento del suo volontario allontanamento dalla casa dei genitori, fino al suo imprigionamento per decisione di Erode; nello stesso arco cronologico erano stati portati a termine anche i pilastri e il telaio. I pilastri di imponenti dimensioni, a forma di torri su diversi piani, probabilmente esemplati sui primi progetti del campanile di Giotto, comprendono un complesso dispiegamento di figure in smalto. I profeti e le sibille si inseriscono entro le nicchie architettoniche in una successione iconografica integrata con le statuette che fanno dell’altare una vera e propria cattedrale, rutilante di riflessi e di colori. Tuttavia, se le ipotesi fino ad ora formulate, ossia che a Leonardo di Ser Giovanni spettino alcune delle formelle, in base al confronto con le scene da lui eseguite per l’altare di San Jacopo con le storie del Santo più o meno negli stessi anni2, e che a Cristofano di Paolo spetti l’esecuzione dei pilastri, il restante lavoro deve essere diviso tra gli altri artisti, ossia Michele di Monte e Betto di Geri3. Uno dei due ha quindi compiuto le altre formelle non ascrivibili a Leonardo di ser Giovanni e probabilmente alcune delle numerose statuette che popolano sia la galleria superiore, sia le nicchie. Dobbiamo aggiungere che nei documenti superstiti sono nominati dei “compagni”, ossia orafi con i quali erano stati stretti sodalizi di tipo artistico ed economico e di cui ignoriamo totalmente i nomi e i compiti. Dopo il profondo studio dell’immensa costruzione affrontato da Giulia Brunetti insieme a Luisa Becherucci non si sono succeduti molti altri contributi per sciogliere gli innumerevoli nodi critici, il che ci rende disarmati di fronte ad un’opera che per complessità, molteplicità di figure e ricchezza iconografica può essere paragonata ad una cattedrale. A questo si aggiunge la continua stratificazione di interventi che hanno segnato la storia dell’altare per oltre un secolo.

Infatti, al primo periodo, che già presentava ben definito il disegno complessivo dell’opera, ne succedette un altro in due fasi, nel 1445 ad opera di Tommaso Ghiberti, figlio di Lorenzo e suo collaboratore, e Matteo di Giovanni, forse appartenente alla famiglia Dei, una delle più note a Firenze nel campo dell’oreficeria, con l’esecuzione della nicchia e della teoria di santi e profeti soprastanti4, e nel 1452, quando fu eseguita da Michelozzo di Bartolomeo la figura del Battista, già prevista fin dall’inizio.

Mancavano le due fiancate e i pilastri posteriori che furono affidati a ben cinque artisti: Bernardo Cennini, Antonio del Pollaiolo, Andrea del Verrocchio, Antonio di Salvi con il cugino Francesco di Giovanni. Allora furono inseriti nei pilastri innumerevoli smalti, alcuni semplicemente contenenti fregi fogliacei, altri figure. Queste ultime non sono così significative come quelle sul frontale, forse perché destinate a rimanere seminascoste nei pilastri posteriori e il loro numero si riduce anche a causa di notevoli lacune. Alcuni smalti, tuttavia, hanno caratteri di grande originalità che portano in primo piano problemi risolvibili puramente a livello di ipotesi. Le fiancate laterali con l’inizio e la fine delle storie del Battista, in ogni caso necessarie per la piena comprensione della vicenda evangelica e volute fin dalle prime battute del progetto trecentesco, furono oggetto di una contesa aspra tra gli orafi fiorentini. Infatti nel 1478 il compito era stato affidato inizialmente a due artisti assai famosi, Antonio del Pollaiolo e Andrea del Verrocchio, che, nonostante il lungo apprendistato e poi la successiva attività in quell’arte, si erano dedicati principalmente alla pittura e alla scultura, più redditizie ai loro occhi. La protesta di altri, che ritenevano a buon diritto di avere le carte migliori per aggiudicarsi l’incarico, aveva portato Calimala a coinvolgere due ulteriori botteghe, ossia quella di Bernardo Cennini, allora assai vecchio, avendo sessantatre anni, e quella di Antonio di Salvi, allora ventisettenne, che la condivideva con Francesco di Giovanni più o meno coetaneo, invece da poco incamminatisi in quel mestiere.

A parte le formelle, la cui paternità è certa, le statue delle gallerie di coronamento e gli smalti dei pilastri hanno incerta attribuzione, poiché ogni proposta si basa sostanzialmente sull’analisi di caratteri meramente stilistici, che ci portano ad assegnare le statue della fiancata sinistra a Bernardo Cennini, quelle della fiancata destra, ad Antonio di Salvi e a Francesco di Giovanni. Molto incerta è invece l’assegnazione degli smalti, che sembrano relativamente lontani dai caratteri a noi noti di ciascuno degli artisti citati. Bisogna premettere che l’altare, dopo l’uso, veniva smontato e riposto in un armadio appositamente costruito. Benché lo si considerasse cosa preziosa e da preservare accuratamente, queste operazioni comportavano dei traumi che lo hanno danneggiato in alcuni casi irrimediabilmente. Inoltre, fino a quando non è stato protetto da vetri, si sono verificati innumerevoli furti delle piccole figure a tutto tondo e dei minuscoli particolari applicati sulle formelle.

Nel pilastri ultimi delle fiancate sono conservati ancora smalti, preziosi documenti di una espressione artistica di cui sono rimasti scarsi esempi. Il contratto di allogagione era stato chiaro nella suddivisione dei compiti. Insieme alle formelle “devono fare ancora tutte le cornice, sovagi, pilerie, basi, fregi e capitelli come quelli del detto dossale vecchio, e tutto alla bontà di perfetti maestri”5. Modellandosi sull’esistente, erano obbligati a uniformarsi anche tra di loro nelle tecniche e nelle esecuzioni. In base a questi dati ritengo che in una fase non meglio identificata di rassettature o restauri relativamente recenti, siano avvenuti alcuni spostamenti, la cui decifrazione renderebbe più chiara la lettura di questa ultima fase dell’altare.

Un paio di smalti in particolare offrono spunti di riflessione su questo problema che riprenderò nelle conclusioni a questa lettura dei due pilastri. Si tratta in ambedue i casi di angeli di profilo situati in due formelle, collocate simmetricamente entro monofore, nella parte superiore del pilastro laterale della fiancata sinistra, quella a cui lavorarono Bernardo Cennini e Antonio del Pollaiolo. Ambedue sono volti verso sinistra e il secondo guarda verso la parte terminale dell’altare, cosa che appare estremamente curiosa. Secondo logica, le due figure avrebbero dovuto per lo meno essere speculari rispetto alla nicchia che conteneva in origine una statuetta purtroppo perduta. È innegabile che sono parte di un linguaggio comune a tutta la scultura fiorentina di quegli anni, ma è vero che le figure eseguite da Antonio nell’agitarsi delle vesti in increspature che sembrano nascere le une dalle altre, nei volti ampi agli zigomi e dagli occhi sfuggenti, sono facilmente individuabili e riconoscibili. Uno dei due angeli purtroppo conserva solo in parte la pasta vitrea. Il fondo è azzurro molto carico, la veste è rosa, come vediamo dalle tracce rimaste nei solchi tracciati dal cesello, la cintura che trattiene le pieghe del guarnello è verde, come verdi sono le scarpe e le ali con alcune piume colorate di giallo. Una corona, gli cinge la fronte e trattiene i capelli divisi in ampie ciocche. L’angelo sembra giungere di corsa e le vesti si piegano in convulse pieghe che gli conferiscono uno straordinario senso di movimento. L’altra figura presenta una gamma cromatica assai più ricca. Ha la veste verde con le ali marroni arricchite da tocchi di colori. Lo smalto giallo steso sui capelli allude al colore biondo, così come gialla è la cornucopia che tiene in mano. Benché abbastanza diversi tra di loro, mostrano un’identica matrice, ossia quella della bottega di Antonio del Pollaiolo. Egli, come sappiamo, quando ebbe l’incarico di completare la fiancata dell’altare era vicino alla cinquantina, artista più che navigato e che poteva vantare una schiera nutrita di allievi in tutti i campi artistici.

A parte le notizie forniteci dalla non vasta letteratura artistica a riguardo, ne conosciamo i nomi attraverso le notizie interne al testo delle matricole dell’Arte di Por Santa Maria o della Seta, corporazione alla quale si iscrivevano gli orafi. Essi al momento dell’immatricolazione dovevano produrre un’accurata documentazione attraverso la quale si poteva comprovare che avevano seguito l’apprendistato di almeno sei anni in una bottega di un maestro, a meno che non avessero un padre, un fratello o uno zio, già iscritti alla medesima arte, che garantivano per la loro formazione. Sappiamo dunque che la bottega in via Vacchereccia, la breve strada che da Piazza della Signoria portava al Mercato Nuovo, ora Loggia del Porcellino, aveva formato innumerevoli allievi: Bernardo di Paolo di Tommaso Pieri, immatricolato il 28 aprile 1477, il nipote di Antonio, Silvestro di Giovanni di Jacopo, il 25 aprile 1499, e i cugini Antonio di Salvi e Francesco di Giovanni, il 25 febbraio 1475. Inoltre, fu a bottega con lui, anche se come compagno, Paolo di Giovanni Sogliani, compagnia che si sciolse nel novembre del 14806. Infine, sappiamo dal Trattato dell’Oreficeria di Benvenuto Cellini che Amerigo di Giovanni, uno dei migliori smaltatori presenti a Firenze, probabilmente autore di alcune delle montature dei vasi della collezione di Lorenzo il Magnifico e stimatore dei beni preziosi del Palazzo di via Larga dopo la sua morte, si era servito a lungo dei disegni di Antonio del Pollaiolo. La eredità figurativa pollaiolesca improntò lo stile di molti orafi anche dopo che nel 1484 era stato chiamato per eseguire i monumenti funebri di Sisto IV e di Innocenzo VIII a Roma, città da cui non fece ritorno perché la morte lo colse nel 1498.

In definitiva, erano innumerevoli i giovani aspiranti orafi, ma anche maestri ormai navigati, che lavoravano nella sua bottega. Come spesso succedeva, alcuni erano specializzati in tecniche molto precise, sebbene generalmente la formazione comportasse una padronanza assoluta di tutte le fasi di lavorazione di un’opera di oreficeria e di gioielleria. Il maestro solitamente forniva il disegno tracciato su un foglio o direttamente sulla lastra e lasciava ad altri il compito di sagomarle e di rivestirle con la pasta vitrea, operazione assai complessa, poiché la stesura di alcuni colori presentava notevoli difficoltà anche per gli esecutori più navigati e necessitavano di un’attenzione particolare al momento della cottura. Negli smalti, sui quali stiamo portando l’attenzione, notiamo soluzioni stilistiche non dissimili da quelle con cui Antonio conduceva abitualmente le figure di angeli e che la schiera numerosa di discepoli aveva adottato; il segno dell’influenza che egli ha impresso trova una ulteriore prova nel fatto che i suoi allievi, anche se ormai emancipati, continuarono a subire l’influenza del maestro e a tramandarne l’insegnamento.

Su un altro piano, ad esempio, la croce, eseguita tra il 1458 e il 1459, destinata ad essere posta sull’altare durante le celebrazioni della festa di San Giovanni, il 24 giugno, e per la Festa del Perdono, il 13 gennaio, offre notevoli spunti di riflessione sulla personalità di Antonio; questa, come le altre opere di oreficeria, dette una impronta decisiva a tutta la generazione di orafi che fu attiva nell’ultimo quarto del Quattrocento. L’opera, un vero e proprio monumento sia per complessità di composizione sia per grandezza, essendo alta quasi due metri e larga circa novanta centimetri, presenta una tale ricchezza iconografica e un tale affollarsi di particolari architettonici, figure e scene smaltate da trovare pochi riscontri. Purtroppo, ha perso nella sua totalità le paste vitree, soprattutto nel basamento, così che è impossibile stabilire confronti soprattutto per quanto riguarda la gamma cromatica7.

Anche la croce proveniente dal monastero di San Gaggio, ora conservata nel Museo Nazionale del Bargello di Firenze8, e di quasi venti anni successiva all’opera per il Battistero, è ormai solo una pallida immagine di quella che uscì dalla bottega pollaiolesca, ma dove, in ogni caso, la bellezza dell’incisione, ripaga ampiamente della perdita della policromia. Se dobbiamo stabilire un confronto tra i due angeli dell’altare e l’opera del Pollaiolo, lo possiamo fare ad esempio con i due angeli a tutto tondo della Croce per il Battistero, in origine posti a fianco del crocifisso, poi spostati in basso, sulle due arpie che sono state aggiunte al lato del basamento. Le due figure sono rappresentate mentre avanzano verso lo spettatore con le mani congiunte al petto, le vesti disordinate dal vento in mille pieghe, i capelli all’indietro che accentuano il senso di movimento e di velocità. Tali caratteri ritornano nel 1487 nel reliquiario di San Girolamo, lavoro di Antonio di Salvi (Firenze, Museo dell’Opera del Duomo) proveniente da Santa Maria del Fiore, e in alcuni smalti di colui che può essere considerato uno dei migliori allievi del Pollaiolo, ossia Paolo di Giovanni Sogliani. Pur non avendo alcun documento che lo comprovi, si ritiene che egli, dopo che aveva sciolto la compagnia con il maestro, lo abbia seguito a Roma e alla sua morte, nel 1498, fosse tornato a Firenze dove immediatamente ricevette alcune prestigiose commissioni, il reliquiario del Libretto per il Battistero (Firenze, Museo dell’Opera del Duomo) e il reliquiario di San Giovanni Gualberto, per l’Abbazia di Vallombrosa (Ivi), ambedue eseguiti nel 15009. Sono ricchi di smalti ma difficilmente avvicinabili agli angeli dell’altare. Anche le due figure che affiancano il Cristo in Pietà del reliquiario del Libretto, presentano una gamma cromatica meno brillante, figure più tozze e alcune semplificazioni nel tratto dei lineamenti e delle vesti delle figure, desunte certamente dai modi del Pollaiolo, ma non nel suo stile. Se fosse stato il Sogliani era, benché formalmente già emancipato dal maestro negli anni in cui furono eseguite le fiancate dell’altare, ancora sotto la sua tutela artistica, perché si immatricolò due volte a distanza di pochi giorni, l’11 agosto 148410  e il 20 agosto11 dello stesso anno, solamente alla partenza di quest’ultimo per Roma avvenuta intorno alle medesime date. Nel testo della formula di immatricolazione si dice che egli ha compiuto il suo apprendistato di sei anni senza che sia specificato dove e con chi. Alla data degli interventi che concludevano la struttura architettonica dell’altare, l’orafo era già legato al Pollaiolo e probabilmente ha avuto un qualche ruolo nella sua esecuzione nella scena della Nascita del Battista Per ora i due smalti rimangono privi di paternità sebbene sia facile portarli nell’ambito della fitta schiera di artisti che hanno lavorato nell’ultimo quarto del Quattrocento, né ci sono di aiuto altri smalti dello stesso pilastro alcuni dipinti di blu, altri con motivi vegetali policromi per cirscoscriverne la personalità.

Più intrigante è il putto nudo nella monofora nella parte superiore, muscoloso e grassoccio, con le tracce del bulino che hanno disegnato le linee del corpo, in un virtuosismo che fa pensare alla mano del Pollaiolo, piuttosto che, ad esempio, a quella di Bernardo Cennini, i cui modi sono indubbiamente più dolci e ritmati. Sappiamo che Bernardo Cennini si fece consegnare dall’Opera di Santa Maria del Fiore proprio il segmento che sovrastava la galleria il tabernacolo al centro del frontale con il San Giovanni Battista, probabilmente eseguito da Matteo di Giovanni nel 144512, sul quale modellare quello della fiancata che gli era stata affidata: “A Bernardo Cennini, orefice, si mandi il dossale che sta sopra la figura di san Giovanni existente nel dossale, cioè cinque tabernacoli con figure”13. Corrisponde, anche se ovviamente riadattato al gusto di trenta anni dopo il disegno a motivi ogivali separati da colonnine con al centro melagrane. Se allora Cennini ha compiuto la galleria superiore, è verosimile che al Pollaiolo sia stato affidato il pilastro terminale, in una rigida suddivisione dei compiti che ha contraddistinto questa ultima fase dell’esecuzione dell’altare.

Passando all’altra fiancata, è credibile che sia stato applicato un criterio analogo. In questo caso la galleria superiore sarebbe stata eseguita da Antonio di Salvi e Francesco di Giovanni, mentre il pilastro terminale, dalla bottega di Andrea del Verrocchio. Il fondo delle nicchie della galleria simile al precedente ma interpretato liberamente, così come simili sono i motivi fogliacei. Purtroppo nei pilastri sono scomparsi molti smalti, soprattutto, per quanto ci interessa, quelli simmetrici ai due angeli pollaioleschi. Ho già accennato al fatto che pare curioso che ambedue siano rivolti verso sinistra e in teoria dovrebbe esistere simmetricamente un’altra figura rivolta verso destra. Poiché gli smalti del pilastro della fiancata opposta sono stati sostituiti con lastrine d’argento, potrebbe essere plausibile che in uno dei tanti rimaneggiamenti che ha subito l’altare, si sia deciso di riunire insieme gli smalti superstiti, indipendentemente dal significato che potevano aver avuto. Infatti nel 1892 si decise dopo un lungo lasso di tempo di rimontare il dossale in occasione della festa di San Giovanni e in quell’occasione o immediatamente dopo si provvide a smontarlo forse per una ripulitura, tanto che il Poggi nel 1904 elenca le formelle in un ordine diverso da quello originario14. I successivi interventi di restauro sull’altare hanno lasciato tutto così come è stato trovato, anche quello condotto da Salvestrini negli anni 1947-1948. Quali dei due angeli si trovava nel pilastro di destra non è cosa risolvibile, poiché, come abbiamo visto, molti orafi si erano formati alle dipendenza del Pollaiolo o sotto la sua influenza e parlavano un linguaggio comune.

L’ultimo registro nei due pilastri presenta a sinistra fiori sgargianti affiancati da foglie modellate, a destra, due vasi con fiori: quello più visibile dagli spettatori, quindi accanto alla formella con Il Banchetto di Erode, è certamente vicino ai modelli verrocchieschi, con le baccellature ad elica, sulle spalle e sul collo dell’oggetto, e baccellature a doppia cornice in quella inferiore; l’altro, all’esterno, è più corsivo con medaglioni circolari in corrispondenza delle spalle e una semplificata quadrettatura sul collo.

Interessante è invece al centro del pilastro l’effige di una sibilla, con un abito lungo fino a terra, la cui gonna è divisa in due balze, dove, nonostante la caduta degli smalti e la piccolezza delle misure, possiamo riconoscere alcune affinità con i modelli del Verrocchio, soprattutto nel viso tormentato e dai tratti altamente caratterizzati; anche le statuette dei pilastri, dai modi più corsivi, sembrano affini, anche se estremamente più corsivi, al suo stile. È scontato che, nel caso che veramente questi smalti siano stati eseguiti su suo disegno, l’esistenza di uno smaltista che lo a affiancasse e avesse lavorato alle sue dipendenze, poiché il Maestro aveva abbandonato l’arte dell’orafo fin dagli anni Sessanta del secolo e non risulta che possedesse una bottega attrezzata per questo mestiere.

Nonostante tutti i dubbi che possono sorgere a seguito della assenza di documenti e allo scarso numero di placchette rimaste possiamo proporre un’ipotesi: che le gallerie superiori siano state affidate rispettivamente alle botteghe di Bernardo Cennini e a quella di Antonio di Salvi, e che i due pilastri siano stati commissionati alla bottega di Antonio del Pollaiolo e di Andrea del Verrocchio.

In ogni caso, come possiamo capire, gli smalti sono esemplari di assoluto interesse per integrare la storia della smalteria fiorentina, purtroppo carente e lacunosa. Per questo vedere come certi schemi fossero comuni sia all’oreficeria, che alla pittura e alla scultura diventa un ulteriore passo per comprendere quanto le arti a Firenze nel Quattrocento fossero perfettamente integrate tra di loro e scevre dalla gerarchia di generi che caratterizzerà i secoli successivi15.

  1. Un’analisi esauriente delle vicende del dossale è stata compiuta da Luisa Becherucci e Giulia Brunetti (L. BECHERUCCI, Le fiancate del dossale, in L. BECHERUCCI – G. BRUNETTI, Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, 2 voll., Electa, Milano-Firenze, 1969-1970, pp. 224-229; G. BRUNETTI, Il dossale d’argento, Ivi, pp. 215-224). Al medesimo testo si rimanda per la vastissima bibliografia relativa fino al 1970. Per tutta la bibliografia fino al 2012 cfr. T. VERDON (a cura di),  La Croce e L’altare d’argento del Tesoro di San Giovanni, Modena, Franco Cosimo Panini, 2012, pp. 13-29. []
  2. Un saggio esaustivo sull’altare di San Iacopo è stato compiuto da L. GAI (L’altare argenteo di San Iacopo nel Duomo di Pistoia, Torino, Allemandi, 1984. []
  3. Una prima ipotesi in questa direzione è stata da me formulata dopo l’osservazione diretta dell’altare ancora in restauro. Cfr.: L’altare e la Croce di San Giovanni, in La Croce e L’altare d’argento del Tesoro di San Giovanni, a cura di T. Verdon, Modena, Franco Cosimo Panini, 2012, pp. 13-29. []
  4. D. LISCIA BEMPORAD, La nicchia dell’altare d’argento di San Giovanni Battista, in Intorno a Lorenzo Monaco. Nuovi studi sulla pittura tardogotica, a cura di Daniela Parenti e Angelo Tartuferi, Livorno, Sillabe, 2007, pp. 156-167. []
  5. F. CAGLIOTI, Benedetto da Maiano e Bernardo Cennini nel Dossale argenteo del Battistero fiorentino, in Opere e giorni: studi su mille anni di arte europea dedicati a Max Seidel, a cura di Klaus Bergdolt e Giorgio Bonsanti, Venezia, Marsilio, 2001, p. 245, doc. 5. []
  6. Per maggiori notizie sulla bottega del Pollaiolo cfr.: D. LISCIA BEMPORAD, Appunti sulla bottega orafa di Antonio del Pollaiolo e di alcuni suoi allievi, in «Antichità Viva», XIX, 1980, n. 3, pp. 47-53; L. MELLI, Antonio del Pollaiolo orafo e la sua bottega “magnifica ed onorata” in Mercato Nuovo, in «Prospettiva», 109, 2004, pp. 65-75. []
  7. L. BECHERUCCI, La croce d’argento, in L. BECHERUCCI – G. BRUNETTI, Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, 2 voll., Milano-Firenze, Electa, 1969/70, pp. 229-236; L. BENCINI, Nuove ipotesi sulla croce d’argento del Battistero, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 42, 1998, pp. 40-66; Eadem, Betto di Francesco e gli smalti della croce del battistero di Firenze, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia», III, Ser. 18.1988,1, pp. 175-194. []
  8. Tra il 1476 circa il-1483 il Pollaiolo. eseguì una croce-reliquiario d’argento dorato e smalti per il monastero di San Gaggio presso Firenze, di cui rimangono i documenti di pagamento (cfr. E. STEINGRÄBER, Studien zur Florentiner Goldschmiedekunst, i, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», VII, 1955, n. 2, pp. 87-100); M. COLLARETA – D. LEVI, La croce del Pollaiolo, Firenze S.P.E.S., 1982 []
  9. D. LISCIA BEMPORAD, L’oreficeria a Firenze nella prima metà del Cinquecento: Paolo di Giovanni Sogliani, in Studi di Storia dell’Arte sul Medioevo e il Rinascimento nel centenario della nascita di Mario Salmi, atti del convegno, Firenze, Edizioni Polistampa, 1992, vol. II, pp. 787-800 []
  10. ASF, Arti, Arte di Por Santa Maria, n. 10, c. 71 v. []
  11. Ibidem, c. 73 r. []
  12. D. LISCIA BEMPORAD, La nicchia dell’altare d’argento di San Giovanni Battista, in Intorno a Lorenzo Monaco. Nuovi studi sulla pittura tardogotica, a cura di D. Parenti e A. Tartuferi, Livorno, pp. 156-167. []
  13. L’ipotesi che fosse stato consegnato un pezzo dell’altare, il più vicino cronologicamente, al Cennini per modellare le proprie nicchie era già stato formulato da Giulia Brunetti (G. BRUNETTI, Il dossale … cit., 1970, pp. 217), ma il documento integrale e rivisto è stato pubblicato da F. CAGLIOTI, Benedetto da Maiano e Bernardo Cennini nel Dossale argenteo del Battistero fiorentino, in Opere e giorni: studi su mille anni di arte europea dedicati a Max Seidel, a cura di Klaus Bergdolt e Giorgio Bonsanti, Venezia, Marsilio, 2001, p. 245, doc. 7. []
  14. G. POGGI, Catalogo del Museo dell’Opera del Duomo, Firenze, 1904,  p. 44. []
  15. È tanto vero che maria Grazia Ciardi Duprè ha considerato l’altare del Battistero il paradigma di questo concetto. In L’oreficeria nella Firenze del Quattrocento, catalogo della mostra (Firenze, Santa Maria Novella, maggio-giugno 1977), Firenze, S.P.E.S., pp. 21-49. []