Paola Venturelli

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Un calice e un reliquiario siciliano nel Tesoro del Duomo di Milano

DOI: 10.7431/RIV04042011

Il 25 settembre 1683, per volontà del milanese Carlo Francesco Airoldi (1637-1683), vescovo di Edessa e Nunzio Apostolico della Repubblica di Venezia, appartenente a una delle famiglie  più importanti della Lombardia spagnola1, veniva donato al Tesoro del Duomo di Milano, un prezioso calice di rame dorato, con coppa d’argento parimenti dorata (23,2×13,6).2.

Un’ opera inequivocabilmente siciliana, presumibilmente dovuta almeno in parte a maestranze trapanesi3, come rivelano i minuscoli moduli decorativi di corallo lavorato a basso o alto rilievo, posti in dialettico gioco cromatico sul supporto metallico. Trofei vegetali, fogliette, fiori, teste di cherubino, rivestono il piede mistilineo e modanato, il fusto a balaustro con nodo a bulbo schiacciato, i rocchetti di raccordo e il sottocoppa, in un insieme  ricco e fastoso. (Figg. 1a e 1b). I diversi elementi di corallo sono fissati mediante fili e pernetti di metallo secondo la tecnica ‘della cucitura’ -tipicamente tardo-secentesca-, grazie alla quale è possibile conseguire effetti scenografici di grande suggestione. Sostituisce la più antica detta del ‘retro – incastro’, peraltro impiegata anch’essa nel calice milanese per gli elementi a baccello affiancati disposti a corolla sul sottocoppa e per quelli tondeggianti o a segmenti cilindrici che corrono lungo la cornicetta perimetrale della coppa4.

Si può congetturare che il pregiato calice, caratterizzato da un sostegno la cui sagoma è perfettamente in linea con i prodotti d’oreficeria lombarda secentesca, sia stato inviato a Carlo Francesco da qualche personaggio del ramo degli Airoldi trasferiti agli inizi del XVII secolo a Palermo5, città dove risultano attestati orefici milanesi, che talvolta collaborano con colleghi di altri centri siciliani ((Cesare Valle, “segretario di Sua maestà” e di Don Pedro Tellez Giron, Duca di Ossuna (eletto Viceré di Sicilia nel 1610) dona alla Madonna di Trapani un “gioia a rosa tutta d’oro”, con diamanti, “vista per l’aurefice Ioanni Paulo milanesi”, come risulta da un inventario del 1621; tale personaggio dovrebbe essere identificato in Giovanni Paolo Bescapé, orafo milanese trasferitosi in Sicilia alla fine del XVI secolo, documentato a Trapani dal 1594 al 1613-1614, anni in cui ricopre la carica di Console, sposa la trapanese Bricitella Prisci e tiene bottega con il cognato, l’orafo Francesco Prisci, che a sua volta sposa la sorella di Giovanni Paolo (cfr. M. C. Di Natale, “Coll’entrar di Maria entrarono tutti i beni della città”, in Il Tesoro nascosto. Gioie e argenti per la Madonna di Trapani, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, V. Abbate, Palermo 1995, pp. 21- 22, 43 (note 134, 145); i “Bascapè” sono attestati nelle matricole degli orefici di Milano dal 1467 (con Augustinus) al 1625 ( con Agosto), cfr. D. Romagnoli, Le matricole degli orefici di Milano, Milano 1977, sub indice. Attivo a Palermo tra 1573 e 1594 risulta Pietro Cazola, forse il capostipite della famiglia di orefici d’ origine milanese documentati anche all’ inizio del XVII secolo (nel 1614 Marzio Cazzola risulta affittuario di una bottega), cui appartenne  Marta Cazola (o Cassola) che sposa nel 1606 l’orafo Leonardo Montalbano, autore (ca. 1640- 1641) dell’ostensorio della chiesa di S. Ignazio all’ Olivella di Palermo, la celebre Sfera d’oro (Palermo, Galleria Regionale della Sicilia), come suggerisce Vicenzo Abbate (V. Abbate, La sfera d’oro, in La sfera d’oro. Il recupero di un capolavoro dell’oreficeria palermitana, a cura di V. Abbate, C. Innocenti, Napoli 2003, nota 6, p. 56, con bibliografia precedente; per i Cazzola, cfr. S. Barraja, Una bottega orafa del Seicento a Palermo, in M. C. Di Natale, I monili della Madonna della Visitazione di Enna, Enna 1996, pp. 105-120); forse Pietro Cazola giunse a Palermo al seguito di Francesco Ferdinando d’Avalos d’Aquino, marchese di Pescara, Viceré di Sicilia dal 1568 al 1571, così come Annibale Fontana (1540-1587), l’intagliatore di pietre dure, medaglista e scultore, a Palermo il 31 marzo1570, quando stima lavori  di Vincenzo Gaggini per la porta della cattedrale; tra il marzo 1571 e la fine del 1572  Annibale risulta assente da Milano (cfr. P. Venturelli, “Raro e Divino”. Annibale Fontana (1540-1587) intagliatore e scultore milanese, in “Nuova rivista storica”, LXXXIX, 2005, p. 220; P. Venturelli, Cammei e pietre dure milanesi per le corti d’Europa tra Rinascimento e Barocco, in corso di pubblicazione). Si veda inoltre V. Abbate, Contesti palermitani di prima metà Seicento: la Congregazione dell’Oratorio tra maestranze e mercanti “forastieri”, in Splendori…, 2001, pp. 140-151. La collaborazione tra corallai trapanesi e orefici palermitani è stata più volte sottolineata: cfr. M. C. Di Natale, scheda n. 116, in L’Arte del corallo in Sicilia, catalogo della mostra a cura di C. Maltese e M.C. Di Natale, Palermo 1986, p. 288 (per quella tra l’argentiere trapanese Andrea de Olivieri, l’orefice palermitano Marzio Cazzola e il corallaio trapanese Thomas Pompeiano, nel secondo decennio del XVII secolo, cfr. M. C. Di Natale, Gli argenti di Sicilia tra rito e decoro, in Ori e argenti di Sicilia, dal Quattrocento al Settecento, catalogo della mostra a cura di M.C. Di Natale, Milano 1989, p. 147 e EADEM, Ibidem, scheda n. II . 44, pp. 219-220)); alle botteghe d’oreficeria palermitane i numerosi lombardi residenti nel capoluogo siciliano ricorreranno d’altro canto ripetutamente per fare realizzare opere da inviare alle chiese dei propri paesi di origine6.

Il Tesoro del Duomo di Milano conserva anche un reliquiario (41×11,9) di pregevole fattura, presumibilmente in origine un ostensorio, donato nel 1965 da papa Paolo VI (Giovanni Battista Montini), come è noto già arcivescovo (1954) e poi (1958-1963) cardinale del capoluogo lombardo7 (Fig. 2).

Anch’esso, come il calice, è privo di punzoni.

Presenta una parte superiore a sagoma di tempietto esagono ovale, con un portello incernierato e aperture sovrastate da archi inflessi, fiancheggiate da otto gugliette con anelli quadrati; il fastigio, con pinnacoli e basamento gradinato su cui è collocato un calice e il residuo di una perduta statuetta (i piedi), è sormontato da una lunetta a giorno, siglata da una croce greca. Il sostegno si compone di un piede polilobato, a sezione ellittica, con specchiature cesellate da un motivo a rigatura e zoccolo a giorno, mentre il fusto è scandito da un nodo a tempietto archiacuto, con sei gugliette e tetto imbriacato.

Pervenuto al Duomo con l’indicazione “tardo quattrocentesca”, l’opera è stata assegnata da Mia Cinotti per la parte superiore, d’argento dorato in lastra, a manifattura “umbro- toscana” degli inizi del XV secolo, mentre il sostegno, di rame dorato, è stato invece giudicato, dubitativamente, un prodotto ‘neo-gotico’, forse del XIX secolo8.

Giovanni Boraccesi ha invece accostato l’esemplare a due reliquiari conservati uno nella cattedrale di Bitonto (privo dell’arco a giorno sovrastante la teca) e l’altro nel Duomo di Molfetta (con doppio tempietto), non ancorati a nessun documento e privi di punzonature, ritenuti “riconducibili agli esiti più maturi della produzione napoletana d’età aragonese, ossia ad un periodo compreso tra il 1465 e il 1505 circa”9. Ha inoltre interpretato correttamente il calice e i piedi nella cimasa come elementi sopravissuti della composizione raffigurante il Sangue del Cristo Redentore, con il Cristo risorto stante, mentre dal costato scorga un fiotto di sangue, raccolto nel calice posizionato sul basamento, un’iconografia proposta principalmente dagli affiliati  della Confraternita del Corpo di Cristo, o del Santissimo Sacramento, che esponevano l’ostensorio in occasione di particolari feste liturgiche10; a un momento successivo potrebbero invece appartenere i raccordi a sezione esagonale del fusto che prendono l’avvio da collarini, privi dei consueti motivi decorativi incisi. La base polilobata con balconata a traforo e piede scandito da costoloni in rilievo, ravvivati a motivi bulinati a tratteggio parallelo, nonché il nodo esagonale schiacciato con costolone orizzontale, sono infatti pressoché identici a quelli che caratterizzano il calice della chiesa di Gesù Bambino, a Fiumara di Muro (Reggio Calabria), ascritto a maestri siciliani della prima metà del XVI secolo, donato nel 1588 da Cristoforo Zappia alla cappella di san Cristoforo, che reca sulla coppa, “probabilmente” sei- settecentesca, la ‘bulla di garanzia’ di Messina. Il motivo a goccia rilevata che conclude i costoloni del collo del sostegno, si ritrova anche in una pisside conservata nella parrocchiale di Castroreale (Messina), riferita al XVI secolo11, nonché in un calice nella chiesa madre di Corleone12, datato agli inizi del XVI secolo. Stessa sagoma ha il piede del calice nella chiesa di santa Maria del Buon Consiglio a Fossano Ionico (Reggio Calabria), anch’esso assegnato a maestranze della Sicilia13, con base polilobata ad andamento esagonale e nervature rilevate con terminazioni aggettanti a sezione triangola, in questo caso vivacizzate da decori a motivi fitomorfi; pure il collarino di congiunzione bombato, interrotto da segmenti verticali, non è lontano da quello che caratterizza il reliquiario di Milano.

Il fastigio con apertura sovrastata da una lunetta a giorno, affiancato da gugliette decorate nella parte sommitale da incisioni parallele e ancorate in identico modo ai fianchi dell’apertura, è invece del tutto simile a quello osservabile nel reliquiario architettonico della chiesa madre di Geraci Siculo, che mostra il marchio degli orafi e argentieri di Palermo (aquila a volo basso con la sigla RUP), dovuto a un maestro del XVI secolo, un’opera connotata da un tempietto piuttosto espanso orizzontalmente (come quello dell’esemplare milanese), distinto da soluzioni formali spagnolo- catalane (come l’arco ribassato con sommità a punta), nodo architettonico e sostegno polilobato con motivo a goccia rilevata. Il reliquiario di Geraci trova peraltro diretto raffronto con l’ostensorio architettonico del monastero delle monache benedettine della medesima città, trasformato in reliquiario di San Giuliano, titolare della Chiesa, decisamente vicino (ad esclusione della base) al reliquiario di Milano, con cui condivide anche la sagoma del nodo e quella delle gugliette e dei pinnacoli; il cupolino della teca è decorato a squame di pesce, un motivo simile a quello dell’ostensorio architettonico della Cattedrale di Caltanissetta, riferito da Maria Accascina ad argentiere catanese14.

Desidero ringraziare vivamente la Direttrice, dott. Giulia Benati, e il Personale del Tesoro e Museo del Duomo di Milano.

Per la Fig. 1:

Foto a colori da: Analisi gemmologica del Tesoro del Duomo di Milano, CISGEM CCIAA, Milano 1986, p. 34.

Foto in b/n da: R. Bossaglia, M. Cinotti, Tesoro e Museo del Duomo, vol. I, Electa, Milano 1978, tav. n. 263.

Per la Fig. 2:

Foto da: R. Bossaglia, M. Cinotti, Tesoro e Museo del Duomo, vol. I, Electa, Milano 1978, tav. n. 169.

  1. Nato a Milano da Marcellino Airoldi, primo conte di Lecco e dalla contessa Maria Diano, Carlo Francesco fu destinato alla carriera ecclesiastica; dopo essere stato creato abate di Sant’ Abbondio nella diocesi di Cremona, venne nominato nel 1668 da Clemente IX internunzio nelle Fiandre, qui compiendo una notevole attività contro la diffusione del giansenismo; lasciata la nunziatura nel 1673 fu consacrato arcivescovo in partibus di Edessa  e nominato vescovo assistente al soglio pontificio; fu tra l’altro nunzio a Firenze e a Venezia, città quest’ultima che lasciò nel 1678 per trasferirsi a Milano, dove morì il 7 aprile 1683; venne sepolto nel Duomo, ai piedi dell’altare della cappella di san Giovanni Buono (o di San Michele), dirimpetto a quella della Madonna dell’Albero (si veda G. L. Barni, Airoldi, Carlo Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, I, Roma 1960, p. 539. Si veda anche il Profilo storico biografico, in www.villasanvalerio.it []
  2. Il calice presenta inoltre un sottopiede in lastra di rame dorato con decori a girali; rimando alla scheda di M. Cinotti, in R. Bossaglia, M. Cinotti, Tesoro e Museo del Duomo, I, Milano 1978, n. 47, p. 67 ( con assegnazione a manifattura “siciliana”, della seconda metà del XVII secolo; Mia Cinotti rilevava che “manca circa il 15% dei coralli”; risulta citato nelle fonti relative al Duomo di Milano a partire da G. C. Besozzo, Distinto ragguaglio dell’origine e stato presente dell’ottava meraviglia del mondo o sia della gran metropolitana dell’Insubria volgarmente detta il Duomo di Milano, Milano 1694,  pp. 49-50 []
  3. I materiali costitutivi del calice sono stati analizzati nel 1986 da Margherita Superchi e Elena Sesana (CISGEM), che hanno proposto la realizzazione del manufatto presso la “scuola di Trapani” (Analisi Gemmologica del Tesoro del Duomo di Milano, CISGEM  CCIAAA, Milano 1986, p. 35 []
  4. La soluzione del ‘retroincastro’ consisteva nell’inserire gli elementi decorativi in fori equivalenti della lamina metallica assicurandoli con cera e pece. Per il corallo trapanese in relazione al XVII secolo e agli oggetti ecclesiastici, si veda M. C. Di Natale, Oro, argento e corallo tra committenza ecclesiastica e devozione laica, in Splendori di Sicilia. Arti decorative dal Rinascimento al Barocco, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Milano 1991, pp. 22-69;  Il corallo trapanese  nei secoli XVII e XVIII, a cura di M. C. Di Natale, Brescia 2002 (con bibliografia []
  5. Numerosi documenti riguardanti Carlo Francesco Airoldi e la sua famiglia sono conservati presso l’Archivio Airoldi di Villa San Valerio, Albiate (per il testamento nuncupativo di Carlo Francesco, del 31 marzo 1693, cfr. Busta 106, Fascicolo 181; alcuni arazzi di Fiandra di sua proprietà, passarono al nipote Antonio  e da questi al cugino siciliano Giuseppe Airoldi, marchese di Santa Colomba di Palermo: si veda Busta 28, Fascicolo 36, 1755 marzo 29 []
  6. Per esempio, negli anni che ci interessano, da Palermo sono inviati a due chiese del comasco, una croce astile datata 1661 (con bollo del Console Giovanni Giorgio Stella) e un calice (con bollo del Console Domenico di Napoli) che reca la scritta ABBAS CANOVS D. D. BARTOLONEVS CASSERA (famiglia comasca, il cui stemma figura inciso sul sostegno del calice): i due manufatti sono presentati, senza indicazione della loro ubicazione e riconoscimento dei bolli, in O. Zastrow, Capolavori di oreficeria sacra nel Comasco, Como 1984; n. 33, p. 49, n. 68, p. 69; i punzoni sono identificati da S. Barraja, I marchi degli argentieri e orafi di Palermo dal XVII ad oggi, Saggio introduttivo di M. C. Di Natale, Palermo 1996, pp. 66-67; la seconda opera figura presso la “Parrocchia di Vercana, lago di Como” []
  7. In generale, cfr. Anni e opere di Paolo VI, a cura di N. Vian, introduzione di A. C. Jemolo, Roma 1978 []
  8. M. Cinotti, in R. Bossaglia, M. Cinotti, Tesoro e Museo… 1978, n. 18, p. 59 []
  9. G. Boraccesi, Un ostensorio napoletano nel Museo del Duomo di Milano, in “Fogli di Periferia”, XII, 2000, n.1-2, pp. 87-89 (citazione a p. 87); lo studioso segnala inoltre che, “seppur con qualche variante”, analogie possono essere riscontrate anche con alcuni ostensori (conservati nella chiesa di S. Maria della Pace di Noicattaro, in collezione privata ad Andria, nell’abbazia benedettina di Montecassino, nell’Episcopio di Cerreto Sannita, nella Cattedrale di Muro Lucano): per nessuno di questi esemplari purtroppo sono a disposizione dati documentari. []
  10. G. Boraccesi, Un ostensorio napoletano…, 2000, p. 88.). Rispetto a quanto sin qui osservato dai due studiosi, mi pare tuttavia più convincente ipotizzare la realizzazione dell’intero manufatto presso una bottega siciliana del XVI secolo, come indicano i motivi architettonici e la sagoma dell’arco ribassato con sommità a punta, che rimandano a modi spagnoli- catalani, essendo le evidenti forme goticheggianti diffuse nell’isola lungo un arco di tempo abbastanza prolungato, dal XIV al XVI secolo ((Si veda M. C. Di Natale, Gli argenti in Sicilia tra rito e decoro, in Ori e argenti…, 1989, pp.138-141 []
  11. A. Bilardo, Castroreale. Cenni storici sul patrimonio culturale, a cura dell’ Amministrazione Comunale di Castroreale, Castroreale 1983, scheda 5, fig. 19 []
  12. R. Vadalà, in Splendori…, 2001, pp. 363-364 []
  13. Entrambe le opere sono ascritte ad argentiere attivo nella prima metà del XVI secolo (L. Lojacono, in Argenti di Calabria, testimonianze meridionali dal XV al XIX secolo, a cura di S. Abita, catalogo della mostra, Cosenza, Palazzo Arnone, 1 dicembre 2006- 30 aprile 2007, Cosenza 2006, n.11, p. 42, n. 12, p. 44 []
  14. M. Accascina, Oreficeria di Sicilia , dal XII al XIX secolo, Palermo. 1974, pp. 207-208; M. C. Di Natale, I tesori nella Contea dei Ventimiglia. Oreficeria a Geraci Siculo, Palermo 1995, pp. 16- 18 (con raffronti con altre opere più o meno similari); M. C. Di Natale, Il tesoro della matrice Nuova di Castelbuono nella Contea  dei Ventimiglia,  Palermo 2005, pp. 23-25. []